mercoledì 28 aprile 2010

Il garante dell’autonomia e indipendenza della magistratura

Dal Fatto.

Guardie e ladri, fate la pace

di Marco Travaglio

Immaginiamo che, a un corso di addestramento per cani da guardia, si alzi in piedi un anziano e distinto signore per raccomandare a tutti i presenti non di abbaiare ogni qualvolta vedono un ladro e possibilmente acchiapparlo, ma di instaurare “un rapporto di leale cooperazione” con chiunque si avvicini. I cani, non potendo parlare, lo fisserebbero con sguardo interrogativo temendo di aver sbagliato corso. Dove s’è visto mai, infatti, un cane da guardia che coopera lealmente con potenziali ladri e rapinatori, anziché inseguirli e acciuffarli? Ora, scusandoci con gli interessati per la brutale metafora, i magistrati svolgono nella società la stessa funzione del cane da guardia in una proprietà privata: li paghiamo per scoprire e punire chi commette reati. Come recita l’articolo 73 dell’Ordinamento giudiziario, il
pm veglia all’osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato”. Non è scritto da nessuna parte che “cooperi” con chicchessia. Anzi, articolo 104 della Costituzione, la magistratura è “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Resta dunque da capire dove il capo dello Stato abbia tratto l’“alto mònito” o l’“accorato appello” – come dicono i quirinalisti di stretta osservanza – lanciato ieri ai giovani magistrati, esortandoli a “un rapporto di leale cooperazione con tutte le istituzioni rappresentative” in nome di un’imprecisata “comune responsabilità istituzionale”. Da quando le rivoluzioni liberali posero fine all’assolutismo e inaugurarono lo Stato moderno di diritto, imperniato sulla netta divisione dei poteri, il legislativo e il giudiziario controllano l’esecutivo per evitare che questo tracimi dai propri confini abusando del proprio potere. Se dovessero cooperare sempre e comunque, non avrebbe senso la loro indipendenza e il ruolo di controllo e di bilanciamento dei primi due sul terzo. Che, diceva Tocqueville, tende a debordare se non incontra ostacoli: dunque “non è concedere un privilegio ai tribunali permetter loro di punire gli agenti del potere esecutivo quando violano la legge. Sarebbe togliere loro un diritto naturale l’impedirglielo” (“La democrazia in America”). Il predicozzo quirinalizio suona già sgangherato in linea teorica: espressione di una concezione premoderna, molto comunista e partitocratica della democrazia. Ma diventa addirittura pericoloso se applicato alla realtà italiana, dove da vent’anni il potere politico tenta di soggiogare il giudiziario con leggi incostituzionali su misura per gl’interessi di uno solo o di pochi. Nell’Italia del 2010 solo un marziano atterrato per caso potrebbe attribuire il calo di fiducia nella magistratura non agli attacchi forsennati a reti unificate di una banda di impuniti, ma a “visioni autoreferenziali” delle toghe, presunte “esposizioni mediatiche”, “atteggiamenti protagonistici e personalistici”, carenze di “autocritica”, “equilibrio, serenità e sobrietà”. Solo un venusiano di passaggio potrebbe auspicare che “politica e giustizia non si percepiscano come mondi ostili guidati dal reciproco sospetto”, dimenticando gli avanzi di galera che popolano la politica, scrivono leggi e nei ritagli di tempo insultano i magistrati. Solo un extraterrestre potrebbe invitare a “stemperare esasperazioni e contrapposizioni polemiche tra politica e giustizia”, visto che queste non nascono da problemi caratteriali, ma dai delitti di molti politici che comprensibilmente non amano essere scoperti e puniti. Siccome poi Napolitano rammenta di essere “il garante dell’autonomia e indipendenza della magistratura”, qualche giovane uditore avrebbe magari gradito una parola autocritica sulla cacciata da Salerno di pm onesti come Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani, “rei” di aver doverosamente indagato, lontani da protagonismi e personalismi, su colleghi calabresi sospettati di vendersi i processi al miglior offerente e lasciati al loro posto. Così, tanto per sapere se il cane da guardia debba ancora abbaiare quando vede un ladro, o non gli convenga fargli le fusa. Anzi, cooperare.

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