venerdì 30 aprile 2010

Voce del verbo "lodare Alfano": io lodo Alfano, tu lodo Alfano, egli lodo Alfano...

Dal Fatto di ieri...

IL COMMENTO

I limiti alla revisione

Un nuovo rebus per Napolitano

di Lorenza Carlassare

La pervicacia della maggioranza di governo nel riproporre leggi dirette al medesimo scopo - salvare Silvio Berlusconi dai processi - sarebbe veramente apprezzabile se indirizzata a più nobili fini nell’interesse del paese. Più che l’arroganza colpisce la determinazione cieca con cui la maggioranza procede senza concedersi soste. È del 7 aprile la legge sul ‘legittimo impedimento’ - provvisoria, si legge ( art.2), in attesa di una legge costituzionale - che ripropone norme dichiarate illegittime già sottoposte dai giudici di Milano, come le precedenti, al controllo di costituzionalità. Una mossa e una contromossa si susseguono in questo pericoloso gioco che ha per posta il rispetto delle regole di una democrazia costituzionale. Il ricorso alla legge costituzionale sarebbe la mossa vincente che chiude definitivamente la partita a vantaggio della maggioranza la quale, usando il procedimento dell’art.138, ha l’ultima parola. È proprio vero? È vero, come oggi si legge, che la scelta del ddl costituzionale risponde alle indicazioni della Corte Costituzionale che aveva bocciato
il ‘Lodo Alfano’ perché approvato con legge ordinaria? Alcune precisazioni sono necessarie. Da tempo (1988) e a più riprese la Corte costituzionale ha affermato che esistono limiti alla revisione costituzionale: i diritti fondamentali e i principi supremi. Che il principio di eguaglianza sia fra questi non v’è dubbio alcuno. Nelle sentenze sui due ‘lodi’ precedenti ha affermato (n.24/2004) e ribadito (n. 262/2009) che “alle origini della formazione dello stato di diritto sta il principio della parità di trattamento rispetto alla giurisdizione”. Va ancora sottolineato che in tali decisioni non è mai stato detto che se adottate con legge costituzionale quelle norme sarebbero state legittime, ha solo detto – rispondendo a ciò che le era stato chiesto com’è obbligata a fare - che la legge ordinaria non poteva regolare la materia delle prerogative, disciplinata dada norme di rango costituzionale. Ma soprattutto vi è un passaggio della sentenza che va sottolineato: gli istituti di protezione delle funzioni (immunità e simili) “non solo implicano necessariamente una deroga al principio di eguaglianza, ma sono anche diretti a realizzare un delicato e complesso equilibrio tra i diversi poteri dello Stato” E la “complessiva architettura costituzionale, ispirata al principio della divisione dei poteri e del loro equilibrio esige che la disciplina delle prerogative debba essere intesa come uno specifico sistema normativo, frutto di un particolare bilanciamento e assetto di interessi costituzionali”. Vale a dire - mi sembra - che ogni modifica non solo spetta a leggi costituzionali, ma deve inquadrarsi in un sistema armonicamente, non rompendone la trama. Ora, tutta la materia delle ‘prerogative’ è strutturata sulla considerazione dei soli reati commessi nell’esercizio delle funzioni, non sui reati comuni. Potremmo pensare che il Presidente, immune possa, ad esempio, sparare da uno dei Palazzi sui passanti molesti? Una simile disarmonia non romperebbe il delicato ‘sistema’? Ammesso che i limiti alla revisione rendano incostituzionale la legge eventualmente approvata, quali sono i rimedi? Il primo, questa volta, non è il presidente della Repubblica, ma il ‘popolo sovrano’: sulla legge costituzionale può essere chiesto un referendum entro tre mesi dalla seconda approvazione. I cittadini che nel 2006 hanno bocciato la riforma pensata dai ‘saggi’ a Lorenzago ora potrebbero dire no alle immunità; non è neppure immaginabile che la seconda approvazione avvenga a maggioranza dei due terzi (che escluderebbe il referendum). In questo catastrofico caso, al momento di promulgare il presidente della Repubblica si troverebbe in una difficile posizione. Il rifiuto assoluto gli è consentito soltanto nel caso estremo di attentato alla Costituzione, e questo non lo è. È anche discusso se il potere sospendere la promulgazione rinviando la legge alle Camere sia esercitabile quando si tratti di una legge costituzionale; per la complessità della procedura che dovrebbe rimettersi in moto e, qualcuno dice, perché di fronte ad un’eventuale maggioranza dei due terzi col consenso delle opposizioni non sembra che egli possa formulare obiezioni. Questo argomento convince poco: il consenso delle opposizioni, l’accordo condiviso, riguarda il piano politico ma non significa nulla sul piano della legittimità. Su alcune cose, le ‘protezioni’ e gli ‘scudi’ in particolare (ha ricordato Franco Cordero in un’intervista a questo giornale) non sono mancate responsabilità ‘condivise’.

giovedì 29 aprile 2010

Chi è padrone del "Giornale"?

Dal Fatto...

Agcomiche

di Marco Travaglio

Ieri, come ha detto Fini che sta pure diventando spiritoso, il fratello dell’editore del Giornale ha espresso “la più convinta solidarietà a Fini per gli attacchi personali che quest’oggi il Giornale gli ha mosso” a proposito degli appalti Rai alla suocera di Fini perché “la critica politica, anche più severa, non può trascendere in aggressioni ai familiari e su vicende che nulla hanno a che fare con la politica”. Stiamo parlando di Silvio Berlusconi. Da non confondere con Paolo che, com’è noto, è l’editore de Il Giornale talmente geloso dell’indipendenza della testata che – assicura Silvio – non permette a nessuno, meno che mai a Silvio, di influenzarne la linea. Infatti Silvio, rispondendo l’altro giorno a Fini, ha comunicato dolente che “io non parlo col direttore del Giornale e sul Giornale non ho alcun modo di influire”, ma se Fini volesse influire un po’ “potrebbe far entrare nella compagine azionaria un imprenditore suo amico”, perché lui, Silvio, pur non avendo alcun modo di influire, ha “convinto un mio familiare (una zia? Un cugino? Un nipotino? Il solito fratello Paolo?, ndr) a mettere in vendita il Giornale”.
Ecco: Silvio decide di vendere il Giornale, assume e licenzia i direttori (Montanelli nel ’94, Feltri nel ’97), ma senza mai parlarci né influire. Che timidone. Un amico di Fini invece, magari un po’ più estroverso di lui, potrebbe parlarci e influire. Si dà però il caso che il giornalista-scrittore Enzo Bettiza abbia appena raccontato ad Aldo Cazzullo del Corriere come – lui dice nel dicembre 1996, ma era il 1997 – rischiò di diventare direttore del Giornale di Paolo, poi però non se ne fece niente. Feltri era stato appena messo alla porta per aver chiesto scusa a Di Pietro dopo la lunga campagna diffamatoria sul caso D’Adamo-Pacini Battaglia, con tanto di risarcimento dei danni per 700 milioni di lire. E chi chiamò Bettiza per sostituirlo? Paolo? Ohibò, no: Silvio. “Con Berlusconi (Silvio, ndr) ne parlammo in una cena ad Arcore. C’erano Letta, Confalonieri, Massari che era l’amministratore, Biazzi Vergani e Belpietro, che avrebbe dovuto essere il mio condirettore o vicedirettore, a garanzia del lato popolaresco e digrignante... Proposi di far scrivere il primo fondo a Montanelli. Letta disse subito di sì. Berlusconi rimase in silenzio, ma il suo istinto di venditore ambulante lo induceva ad accettare, per pure ragioni pubblicitarie. Tutti gli altri si opposero”. Silvio, Gianni, Fedele. L’editore Paolo, per dire, non fu invitato nemmeno a fare il quarto a briscola. L’estate scorsa, 12 anni dopo, Littorio Feltri tornò sul luogo del delitto. Lo chiamò Paolo? Macché: di nuovo Silvio, quello che con Feltri non parla e sul Giornale non influisce. Lo raccontò lo stesso Littorio, a fine agosto, a Cortina: “Il 30 giugno ho incontrato Silvio Berlusconi. Ogni volta che lo vedevo, mi chiedeva: ‘Ma quand’è che torna al Giornale?’. E io: ‘Sto bene dove sono’. Ma quel giorno entrò subito nei dettagli, fece proposte concrete e alla fine mi ha convinto”. Segnaliamo le dichiarazioni di Bettiza e Feltri, per competenza, alla cosiddetta “autorità indipendente” denominata Agcom che, sotto l’alta egida del Quirinale, vigila occhiutamente su ogni conflitto d’interessi, casomai le fossero sfuggite. Il presidente Calabrò e gl’inflessibili commissari Innocenzi e Mannoni prenderanno senz’altro buona nota e apriranno una pratica per verificare se, per disgrazia, il vero editore del Giornale non fosse Paolo, ma Silvio. Il che configurerebbe una violazione persino della legge Frattini sul conflitto d’interessi, che impone all’Agcom di accertare se per caso “le imprese… che fanno capo al titolare di cariche di governo, al coniuge e ai parenti entro il secondo grado… non pongano in essere comportamenti che… forniscono un sostegno privilegiato al titolare di cariche di governo”. Nel qual caso l’Agcom dovrebbe riferire al Parlamento, diffidare e sanzionare. Ecco, gentili agcomici, ci fate eventualmente sapere?

mercoledì 28 aprile 2010

Il garante dell’autonomia e indipendenza della magistratura

Dal Fatto.

Guardie e ladri, fate la pace

di Marco Travaglio

Immaginiamo che, a un corso di addestramento per cani da guardia, si alzi in piedi un anziano e distinto signore per raccomandare a tutti i presenti non di abbaiare ogni qualvolta vedono un ladro e possibilmente acchiapparlo, ma di instaurare “un rapporto di leale cooperazione” con chiunque si avvicini. I cani, non potendo parlare, lo fisserebbero con sguardo interrogativo temendo di aver sbagliato corso. Dove s’è visto mai, infatti, un cane da guardia che coopera lealmente con potenziali ladri e rapinatori, anziché inseguirli e acciuffarli? Ora, scusandoci con gli interessati per la brutale metafora, i magistrati svolgono nella società la stessa funzione del cane da guardia in una proprietà privata: li paghiamo per scoprire e punire chi commette reati. Come recita l’articolo 73 dell’Ordinamento giudiziario, il
pm veglia all’osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti dello Stato”. Non è scritto da nessuna parte che “cooperi” con chicchessia. Anzi, articolo 104 della Costituzione, la magistratura è “un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Resta dunque da capire dove il capo dello Stato abbia tratto l’“alto mònito” o l’“accorato appello” – come dicono i quirinalisti di stretta osservanza – lanciato ieri ai giovani magistrati, esortandoli a “un rapporto di leale cooperazione con tutte le istituzioni rappresentative” in nome di un’imprecisata “comune responsabilità istituzionale”. Da quando le rivoluzioni liberali posero fine all’assolutismo e inaugurarono lo Stato moderno di diritto, imperniato sulla netta divisione dei poteri, il legislativo e il giudiziario controllano l’esecutivo per evitare che questo tracimi dai propri confini abusando del proprio potere. Se dovessero cooperare sempre e comunque, non avrebbe senso la loro indipendenza e il ruolo di controllo e di bilanciamento dei primi due sul terzo. Che, diceva Tocqueville, tende a debordare se non incontra ostacoli: dunque “non è concedere un privilegio ai tribunali permetter loro di punire gli agenti del potere esecutivo quando violano la legge. Sarebbe togliere loro un diritto naturale l’impedirglielo” (“La democrazia in America”). Il predicozzo quirinalizio suona già sgangherato in linea teorica: espressione di una concezione premoderna, molto comunista e partitocratica della democrazia. Ma diventa addirittura pericoloso se applicato alla realtà italiana, dove da vent’anni il potere politico tenta di soggiogare il giudiziario con leggi incostituzionali su misura per gl’interessi di uno solo o di pochi. Nell’Italia del 2010 solo un marziano atterrato per caso potrebbe attribuire il calo di fiducia nella magistratura non agli attacchi forsennati a reti unificate di una banda di impuniti, ma a “visioni autoreferenziali” delle toghe, presunte “esposizioni mediatiche”, “atteggiamenti protagonistici e personalistici”, carenze di “autocritica”, “equilibrio, serenità e sobrietà”. Solo un venusiano di passaggio potrebbe auspicare che “politica e giustizia non si percepiscano come mondi ostili guidati dal reciproco sospetto”, dimenticando gli avanzi di galera che popolano la politica, scrivono leggi e nei ritagli di tempo insultano i magistrati. Solo un extraterrestre potrebbe invitare a “stemperare esasperazioni e contrapposizioni polemiche tra politica e giustizia”, visto che queste non nascono da problemi caratteriali, ma dai delitti di molti politici che comprensibilmente non amano essere scoperti e puniti. Siccome poi Napolitano rammenta di essere “il garante dell’autonomia e indipendenza della magistratura”, qualche giovane uditore avrebbe magari gradito una parola autocritica sulla cacciata da Salerno di pm onesti come Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani, “rei” di aver doverosamente indagato, lontani da protagonismi e personalismi, su colleghi calabresi sospettati di vendersi i processi al miglior offerente e lasciati al loro posto. Così, tanto per sapere se il cane da guardia debba ancora abbaiare quando vede un ladro, o non gli convenga fargli le fusa. Anzi, cooperare.

venerdì 23 aprile 2010

L'alternativa

Prove scientifiche contro la Sindone

Dal Fatto.

SU MICROMEGA IN EDICOLA DA OGGI
Piergiorgio Odifreddi è matematico, logico e saggista; don Giuseppe Ghiberti, studioso e teologo animano il dialogo riportato in pagina. In questo numero doppio della rivista vi è una parte monografica dedicata alla Sindone: una raccolta di prove scientifiche e storiche per dimostrare come il telo sia un autentico falso. La monografia comprende interventi di: Mauro Pesce, Luigi Garlaschelli, Antonio Lombatti, Paolo Cozzo, Andrea Nicolotti, Gaetano Ciccone, Gian Marco Rinaldi, Giuseppe Platone, Stefano Milani, Alessandro Robecchi.

LA SINDONE
Dialogo tra ateo e cristiano

SU MICROMEGA LE TESI DI ODIFREDDI E DON GHIBERTI SU FALSO STORICO E SIMBOLO DELLA FEDE

di Giuseppe Ghiberti

Caro don Ghiberti, propongo di iniziare questo nostro scambio sulla Sindone partendo da lontano: cioè, dal tempo in cui conosciamo la sua esistenza. Che, comunque, non è così lontano quanto quello al quale vorrebbero risalire coloro che la ritengono autentica. Mi permetto di ricordare, che la conquista di Costantinopoli del 1204 rivelò all’Occidente la cornucopia di reliquie conservate nei santuari di Bisanzio. Comprate o trafugate dai Crociati, in breve tempo esse andarono ad arricchire il patrimonio di meraviglie sacre conservate nelle chiese medievali, per l’elevazione spirituale dei fedeli e materiale del clero, e furono sbeffeggiate dal Belli nel sonetto La mostra de l’erliquie. […] Benché alcune di queste reliquie siano (state) conservate nelle basiliche più sacre della cristianità, da Santa Maria Maggiore a San Giovanni in Laterano, chiunque argomentasse seriamente oggi a favore della loro attendibilità storica verrebbe quasi sempre preso per matto. Quasi, ma non sempre, almeno a giudicare dai milioni di fedeli che accorrono a Torino a vedere la Sindone. O meglio, una delle quarantatré sindoni di cui si ha notizia: alcune con immagini, altre no. Molte andate distrutte da incendi e, come già ironizzava Calvino, prontamente rimpiazzate. Una, quella “miracolosa” di Besançon, distrutta per ordine del Comitato di salute pubblica durante la Convenzione nazionale della Rivoluzione francese.

LA PRIMA APPARIZIONE
La Sindone di Torino, un telo di lino di circa quattro metri per uno, apparve per la prima volta nel 1353 presso Troyes, nel cuore della regione di Chartres e Reims, famose per le loro cattedrali. Il telo reca una doppia immagine, fronte e retro, di un cadavere nudo, rappresentato secondo i canoni e le proporzioni dell’arte gotica dell’epoca: figura rigidamente verticale, gambe e piedi paralleli, tratti del viso più caratterizzati di quelli del corpo. La presenza di segni di ferite in perfetto accordo con il racconto evangelico della passione poteva far supporre che quella fosse un’immagine impressa dal corpo di Cristo sepolto, stranamente mai menzionata nei testi sacri, né rappresentata iconograficamente nel Primo millennio.
Nel 1389 il vescovo di Troyes inviò però un memoriale al Papa, dichiarando che il telo era stato “artificiosamente dipinto in modo ingegnoso”, e che “fu provato anche dall’artefice che lo aveva dipinto che esso era fatto per opera umana, non miracolosamente prodotto”. Nel 1390 Clemente VII emanò di conseguenza quattro bolle, con le quali permetteva l’ostensione ma ordinava di “dire ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del Sudario”. Alla testimonianza storica del Pontefice di allora, evidentemente diverso dai suoi successori di oggi, possiamo ormai aggiungere la conferma scientifica della datazione al radiocarbonio effettuata nel 1988 da tre laboratori di Oxford, Tucson e Zurigo, su incarico della diocesi di Torino e del Vaticano: la data di confezione della tela si situa tra il 1260 e il 1390, e l’immagine non può dunque essere anteriore. Stabilito che la Sindone è un artefatto, rimane da scoprire come sia stata confezionata. L’immagine è indelebile, essendo sopravvissuta sia a ripetute immersioni in olio bollente e liscivia effettuate nel 1503 in occasione di un incontro tra l’arciduca Filippo il Bello con Margherita d’Austria, sia al calore di un incendio del 1532, che la danneggiò in più punti. Inoltre, è negativa (le parti in rilievo sono scure, quelle rientranti chiare), unidirezionale (il colore non è spalmato), tridimensionale (l’intensità dipende dalla distanza tra la tela e la parte rappresentata), e ottenuta per disidratazione e ossidazione delle fibre. Siamo dunque di fronte non a una pittura ma a un’impronta, che certo non può essere stata lasciata da un cadavere. Dal punto di vista anatomico, infatti, le immagini frontale e dorsale non hanno la stessa lunghezza (differiscono di quattro centimetri), ma hanno la stessa intensità, benché il peso avrebbe dovuto essere tutto scaricato sul retro. L’avambraccio destro è più lungo del sinistro. Le braccia sono piegate, ma le mani ricoprono il pube, il che richiederebbe una tensione delle braccia o una legatura delle mani . Le dita sono sproporzionate, e l’indice e il medio sono uguali. Posteriormente si vede l’impronta del piede destro, benché le gambe siano allungate. Dal punto di vista geometrico, l’impronta stereografica lasciata da un corpo o da una statua sarebbe distorta e deformata, soprattutto nella faccia: esattamente come accade per la famosa “maschera di Agamennone”, che è distorta proprio perché aderiva al volto del defunto, e contrasta apertamente con la raffigurazione veristica della Sindone. Solo un bassorilievo di poca profondità può lasciare un’impronta simile.[...]
FANTASIA E RAGIONE A ciascuno dei fatti oggettivi
che ho esposto è naturalmente possibile opporre opinioni soggettive, invocanti cause naturali o soprannaturali, nel tentativo di ricondurre la ragione alla fede. La più fantasiosa fra quelle avanzate, tra pollini e monetine, è certamente l’ipotesi che imprecisati fenomeni nucleari avvenuti all’atto della resurrezione atomica di Cristo abbiano modificato la struttura del telo, cospirando a falsarne la datazione in modo da farla coincidere proprio con il periodo della sua apparizione storica. Evidentemente, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Coloro che invece hanno orecchie per intendere, intendono che il fatto miracoloso non sussiste. Per me, dunque, il caso è chiuso. Ma sono curioso di conoscere la sua opinione sull’argomento: quello oggettivo che ci presenta la Sindone, ma anche quello soggettivo che ho esposto io. Piergiorgio Odifreddi Caro professor Odifreddi, vedo che siamo ambedue nativi della provincia di Cuneo e questo mi dà gioia e mi provoca simpatia. I cuneesi sono “quelli del gozzo” (quante bisticciate da ragazzo con quelli della provincia di Torino), ma anche se non si fanno tanti complimenti, per lo più finiscono per capirsi. […] A me sembra innegabile che l’immagine presente sulla Sindone raffiguri un uomo morto a causa della tortura della crocifissione. Lei ha enumerato parecchie anomalie presenti nella figura sindonica, ma queste aumentano la stranezza misteriosa del reperto, senza però impedire la constatazione di fondo che dicevo: immagine di un uomo morto per crocifissione. La reazione di chi guarda questa immagine può essere varia: una persona con un po’ di cuore sente compassione per tanta sofferenza e indignazione per quella dimostrazione di crudeltà raffinata; sorge intanto la curiosità di capirci qualcosa. Chi ha un po’ di conoscenza della vicenda di Gesù di Nazareth si rende facilmente conto della corrispondenza che passa tra la vicenda dell’uomo della Sindone e quella che ha portato Gesù alla morte: glielo dice una tradizione di devozione, ma soprattutto ne ha conferma da quel poco o tanto che conosce dei racconti evangelici della passione di Gesù. A questo punto, se chi guarda ha la fede, nasce un sentimento spontaneo di interesse affettuoso per un oggetto testimone di un evento tanto importante per la sua vita. Mi sembra che questo sentimento sia di natura prescienti-fica, perché viene prima che siano state poste e affrontate tutte le domande che il reperto suggerisce. Queste domande sorgono ben presto e io che guardo ci vado dietro con molto interesse, ma non mi sento condizionato dalle risposte che posso udire, perché la funzione di segno comunque è svolta da quell’oggetto, qualunque cosa possa pensare della datazione della sua origine e della modalità di formazione della sua immagine (che sono poi le due domande fondamentali provocate da quel reperto).

DEVOZIONE E DISTRUZIONE Penso che questa lettura sia determinante, perché relativizza non solo la scienza ma la Sindone stessa: il suo interesse fondamentale consiste nell’essere un segno e questo funziona indipendentemente
dalla consistenza della sua natura (la scritta “senso unico” ha la stessa forza di segno sia che la trovi incisa su una lastra di metallo prezioso sia che l’abbiano stampata su cartongesso). La povertà di certezze è la forza della Sindone, e a me personalmente la rende anche cara. Partendo da questa lettura delle cose, non mi sento condizionato al discorso dell’autenticità. C’è chi dice: per continuare a proporre la devozione alla Sindone, la Chiesa deve decidersi a definirne l’autenticità; e c’è chi dice: l’autenticità è del tutto esclusa e quindi la Sindone deve essere eliminata. Non condivido nessuno dei due presupposti: che sia stata detta l’ultima parola sull’autenticità oppure che siano state portate prove definitive della non autenticità; e comunque non mi sento condizionato né dall’uno né dall’altro, perché nel primo caso comunque non avrebbe senso parlare di definizione (la Sindone non è un articolo di fede) e nel secondo caso resterebbe immutata la sua efficacia di segno. Il discorso a questo punto è tutt’altro che finito, ma può svolgersi in uno stato d’animo sereno. M’interessa molto sapere se questo lenzuolo ha veramente avvolto il cadavere di Gesù. [...] Certo è la causa di Gesù che viene in gioco con la Sindone. Se non fosse così, i misteri che essa porta in sé interesserebbero sì gli scienziati, ma verrebbero discussi in un loro gremio ristretto, se ne scriverebbe su qualche rivista letta da una dozzina di lettori, e tutto finirebbe lì. Certo la Chiesa ha la sua parte in questa proposta devozionale, ma credo proprio di poter dire – dall’esperienza delle tre ostensioni di cui ho avuto una particolare responsabilità – che il tono apologetico è stato evitato il più possibile, a costo anche di essere decisi nel determinare un orientamento corrispondente a chi avesse voluto pronunciamenti impropri. Ognuno ha il suo modo di sentire, ma l’impostazione fondamentale ha cercato di essere coerente e ha avuto la gioia di sentirsi confermata dall’insegnamento del Papa, quando venne in pellegrinaggio nel 1998. Per conto nostro si ripeteva spesso che la Sindone non ha bisogno delle nostre esagerazioni; ciò che conta è l’attenzione e la disponibilità di vita di fronte al suo messaggio.

mercoledì 21 aprile 2010

Gli "eroi" mafiosi e la Mondadori

Dal Fatto.

Le bugie di Mondadori e la censura sui “Padrini”

IN UN SAGGIO SULLA MAFIA DEL ‘94 SPARITO IL LEGAME MANGANO-BERLUSCONI.
FINI: IO STO CON SAVIANO

di Peter Gomez

La bugia più grossa, Marina Berlusconi l’ha messa nero su bianco a metà della sua lettera di risposta a Roberto Saviano, pubblicata da “La Repubblica” domenica scorsa. Dopo aver difeso il padre che aveva tra l’altro accusato lo scrittore e chi racconta la mafia di fare “cattiva pubblicità all’Italia”, la figlia del premier assicura che quella era solo un critica - peraltro da lei condivisa - e considera: “La Monda-dori fa capo alla mia famiglia da
vent’anni. In questi venti anni abbiamo sempre assicurato, come è giusto e doveroso, secondo il nostro modo d’intendere l’editore, il più assoluto rispetto delle opinioni di tutti gli autori e della loro libertà di espressione”. Un’impegnativa affermazione di principio che si scontra con la realtà dei fatti. Perché i libri in Mondadori - come insegnano i casi di Belpoliti e Saramago rifiutati da Einaudi - a volte vengono censurati. E la pratica va avanti da anni. Non per niente risale proprio al 1994, periodo della discesa in campo di papà Silvio, uno dei più sconcertanti episodi di tagli redazionali operati proprio su un saggio riguardante Cosa Nostra. La Mondadori traduce il libro “L’Europe del parrains” (“L’Europa dei padrini”), in cui il giornalista francese Fabrizio Calvi parla anche delle vecchie inchieste della Criminalpol (1984) sui “legami dell’entourage di Berlusconi con il boss Vittorio Mangano”. Dall’edizione italiana però i riferimenti al Cavaliere e al capo del clan mafioso di Porta Nuova, per due anni fattore di villa San Martino ad Arcore, scompaiono. Semplice prudenza per non andare a urtare la sensibilità dell’editore e di un uomo d’onore amico della sua famiglia? Può darsi. Certo è, però, che la cronologia dei fatti (di mafia) lascia spazio pure ad altre interpretazioni. A spunti forse utili per rispondere alla polemica domanda lanciata ieri dal presidente della Camera, Gianfranco Fini, durante una riunione con i parlamentari Pdl a lui fedeli: "Come è possibile dire che Saviano con il suo libro ha incrementato la Camorra? Come si fa a essere d'accordo?”. Infatti, proprio nei mesi della pubblicazione de “L’Europa dei padrini”, Mangano era tornato a frequentare Milano 2. Da alcune agende, sequestrate a Marcello Dell’Utri, risulta che il capo-mafia si vede a fine ‘93 con l’allora numero uno di Publitalia (lo ammette anche Dell’Utri). Mentre nella sentenza di primo grado che ha condannato il senatore azzurro a 9 anni per cose di Cosa Nostra, si parla d’incontri in provincia di Como che proseguono fino al ‘95. Oggetto dei colloqui, per i giudici, sono delle norme pro-cosche che Dell’Utri tenta di far approvare, in cambio di appoggi elettorali e la richiesta della fine della stagione delle stragi. È la presunta “seconda trattativa” nella quale andrebbe pure inquadrato, secondo le ipotesi investigative, pure il famoso decreto Biondi dell’estate ‘94, (salva ladri) nel quale, come dice all’epoca il leghista Bobo Maroni, ci sono anche passaggi che favoriscono la mafia . Subito dopo il decreto (non convertito in legge) Berlusconi tuonerà per la prima volta contro i film e i libri che denunciano Cosa Nostra. Per la gioia di Michele Greco, il papa della mafia che in carcere aveva detto “e tutta colpa de “Il padrino” se in Sicilia vengono istruiti i nostri processi”, il premier dichiara il 14 ottobre del ‘94: “Speriamo di non fare più queste cose sulla mafia come “La Piovra”, perché questo è stato un disastro che abbiamo combinato insieme in giro per il mondo. Da “La Piovra” in giù. Non ce ne siamo resi conto, ma tutto questo ha dato del nostro paese un’immagine veramente negativa. Si pensa all’Italia e sapete cosa viene in mente... C’è chi dice che c’è anche la mafia, nella realtà italiana”. Immediato il plauso di Totò Riina, in manette dal ‘93, che durante un processo dice: “È vero, ha ragione il presidente Berlusconi, tutte queste cose sono invenzioni, tutte cose da tragedia-tori che discreditano l’Italia e la nostra bella Sicilia. Si dicono tante cose cattive con questa storia di Cosa Nostra, della mafia, che fanno scappare la gente. Ma quale mafia, quale piovra, sono romanzi”. La figlia del premier questa storia sembra però non conoscerla. Eppure di motivi per ricordare ne ha parecchi. Anche perchè Mangano, tra il ‘74 e il 76, era la persona che l’accompagnava ogni mattina a scuola. E l’affetto che il boss provava nei suoi confronti è pure dimostrato dal nome con cui Vittorio e la moglie decisero di battezzare la loro terzogenita: Marina, Marina Mangano.

martedì 20 aprile 2010

Il voto agli extra

Dalla rubrica "noi&loro" del Fatto di oggi.

“IO, NERO, VOTEREI FINI”

di Maurizio Chierici

Gli stranieri ci guardano. Vivono attorno a noi. Attorno, perché “assieme” sembra esagerato. La Lega ha vinto le elezioni e gli extra si preoccupano: cosa succederà? “Mi guardo attorno per capire chi sono. E che tipo di libertà mi è concesso. La proposta della Lega per rinnovare i permessi mi fa paura. Si può perdere il permesso come si perde la patente disobbedendo al Codice della strada. L’extra che cammina ubriaco sul marciapiede, 6 punti in meno. Se fa la pipì contro il muro, 15 in meno. Se non sa dire ‘come stai ?’ nel dialetto del nord dove lavori, 8 punti in meno. Aiuto: sto perdendo un’altra volta il diritto ad essere una persona. Cleophas Adrien Dioma viene dal Burkina Faso. Ha compiuto 38 anni con la felicità di aver trovato la strada che cercava. Poeta, video documentarista, direttore artistico dell’Ottobre Africano, scrive su Internazionale, Solidarietà Sociale, Domani. Ha un lavoro che gli piace anche se deve tirare i denti, ma la minaccia dell’esclusione lo inquieta. “Possiamo noi extracomunitari partecipare al dibattito politico? Possiamo pensare che ci riguardi come funziona questo paese sul piano culturale e sociale? Possiamo ogni tanto alzare la mano per dire la nostra con la pretesa di essere davvero ascoltati da chi magari non è d’accordo ? E la domanda che ci facciamo ogni volta che ci incontriamo: abbiamo diritto a pensare alla politica?”. Appena in Italia ha raccolto arance a Rosarno, clandestino come tutti. “Qualche mese fa guardavo in Tv le facce di Rosarno, nere come la mia. Rosarno è uno spazio simbolo non solo per il razzismo ma per il menefreghismo di una classe politica che usa l’immigrazione per obiettivi politici. Ho lavorato lì per tre mesi. Nelle cronache dei nostri
giorni ritrovo la stessa logica, gli stessi meccanismi. Gli anni passano, la violenza no. Per non pagare noi, poveri negri, alla fine della stagione del raccolto certe persone sparavano nelle baraccopoli. Volevano farci scappare per non darci quanto dovuto”. Gli anni passano, la violenza resta. In questi giorni Cleo e gli altri divorano i giornali e non si staccano dalla televisione: vogliono capire come andrà a finire e se ciò che succede è bene o male per loro. Loro che non votano eppure dipendono dai nostri politici. Parlano come cittadini che vorrebbero scegliere a chi affidare i loro diritti. “Tutti mi chiedono, ma davvero voteresti Fini? Sì, se avessi potuto. So benissimo che non si può votare Fini. Vuol dire votare Pdl, quindi Berlusconi. Non sono stupido. So benissimo che Fini viene dalla destra fascista. Che assieme a Bossi ha fatto una legge schifosa: aggroviglia i problemi e complica la vita. Ma posso sognare che per una volta in Italia si faccia politica con politici veri. Vedo due sole persone: Vendola che conosco poco, e Fini. Forse la Rosy Bindi. Parlano dell’immigrazione come risorsa. Fini cerca di dare la cittadinanza ai nostri figli e affronta la tematica immigrazione-sicurezza come la vogliamo noi. Per farmi capire: siamo su una barca alla deriva. Se arriva la marina militare cosa fai? Ci prenderanno, ci metteranno in prigione, ci riporteranno nel Burkina Faso. Ma i naufraghi non hanno dritto a scegliere. Devono chiedere aiuto al primo che allunga la mano”. Se gli extra avranno diritto al voto amministrativo, chi voteranno ? “Non lo so. Alcuni per la destra, pochi per Bossi se sono integrati e benestanti, con casa e lavoro. Potrebbero far la croce anche su Berlusconi perché in televisione non sembra così cattivo. A me dispiace, ma andrà così”. Con ironia amara gira la domanda a noi padroni di casa: “Voglio sapere perché non vi chiedete come mai un negro come me potrebbe votare Fini…”. Accendiamo la Tv: ecco Bocchino, Gasparri, Quagliariello, Bondi, Calderoli. Cleo sorride. I suoi pensieri e i suoi denti sono bianchi. (Così direbbero i benpensanti)

Il comunismo, il populismo e l'Italia postcostituzionale

Dal sito di micromega un'intervista al filosofo sloveno Slavoj Zizek.

Le ragioni ritrovate del pensiero critico. Intervista a Slavoj Zizek

La crisi del capitalismo alimenta la crescita in Europa di un inquietante e autoritario populismo che ha in Silvio Berlusconi il maggiore interprete. Ma apre anche inediti spazi per una politica che tenda al suo superamento. Un'intervista con il filosofo sloveno in occasione dell'uscita del libro «Dalla tragedia alla farsa»

[...]

Lei ha spesso sottolineato che il populismo sia una malattia del Politico. Non le sembra invece che il populismo, più che una malattia, sia la forma politica che meglio di altre si addice al capitalismo contemporaneo?
Fino a una manciata di anni fa veniva affermato che il capitalismo era sinonimo di democrazia nella sua forma liberale, fondata sulla tolleranza, il multiculturalismo e il politically correct. Ora, invece, assistiamo a forze o leaders politici che invocano la mobilitazione del popolo per combattere i nemici dello stile di vita moderno.

[...]

D'accordo con lei che il populismo indirizza il conflitto verso nemici di comodo per occultare il regime di sfruttamento del capitalismo. Questo vuol dire che occupa uno spazio politico abbandonato, ad esempio, dalla sinistra. Come rioccupare dunque quello spazio?
Walter Benjamin ha scritto che il fascismo emerge laddove una rivoluzione è stata sconfitta. Un concetto che applicato alla realtà contemporanea spiega il fatto che il populismo emerge quando l'ipotesi comunista, che non coincide con il socialismo reale, è stata cancellata dalla discussione pubblica. Nel frattempo, nel tollerante capitalismo contemporaneo assistiamo a campagne mediatiche contro i migranti, perché attentano alla nostra sicurezza. Oppure siamo stati storditi da intellettuali che, come Bernard Henri-Levy, discettano a lungo sulla superiorità della civiltà occidentale e sul pericolo del rappresentato dal fondamentalismo islamico, qualificato come islamo-fascismo. Credo tuttavia che ci siano forti punti di contatto tra l'ideologia liberale e il populismo: entrambi sono pensieri politici che ritengono lo stile di vita capitalistico occidentale come l'unico mondo possibile. I liberali, in nome della superiorità della democrazia, i populisti in nome dell'unico stile di vita che il popolo si dà. Ci sono anche differenze. I liberali sono per imporre, anche con le armi, la democrazia e la tolleranza a chi democratico e tollerante non è; i populisti vogliono invece annichilire con forme soft di pulizia etnica le diversità culturali, sociali, di stile di vita. Può prevalere la democrazia liberale o il populismo a seconda delle specificità locale del capitalismo. Il populismo è quindi una delle forme politiche del capitalismo globale, ma non è l'unica. Anche se devo dire che il vostro Silvio Berlusconi, spesso giudicato come un guitto o un personaggio da operetta, è invece un leader politico da studiare con attenzione, perché cerca di coniugare democrazia liberale e populismo.
Silvio Berlusconi sta tuttavia accelerando una tendenza presente in tutto i sistemi politici democratici. Il suo operato punta infatti a modificare l'equilibrio dei poteri - legislativo, esecutivo, giudiziario - a vantaggio dell'esecutivo, in maniera tale che sia l'esecutivo sussuma sia il potere legislativo che quello giudiziario, ma senza cancellare i diritti civili e politici. Le elezioni sono considerate solo un sondaggio sull'operato dell'esecutivo. Se Berlusconi le perde, invoca allora la sovranità popolare da lui rappresentata. La forma politica che propone è sì una miscela tra democrazia e populismo, sebbene la sua idea di democrazia sia una democrazia postcostituzionale che fa dell'invenzione del popolo il suo tratto distintivo. Tutto ciò rende l'Italia, più che un paese anomalo, un inquietante laboratorio politico dove viene sviluppata una democrazia postcostituzionale. Da questo punto di vista, in Italia si sta costruendo il futuro dei sistemi politici occidentali...

Cosa intende per postcostituzionale?
Una democrazia che fa carta straccia della antica divisione e equilibrio tra potere esecutivo, legislativo e giuridico. Equilibrio dei poteri definito da tutte le costituzioni europee e dal «Bill of Rights» statunitense.....
In Europa tutto ciò è chiamato postdemocrazia. Certo, Silvio Berlusconi vuole superare la democrazia rappresentativa che abbiamo conosciuto nel capitalismo. Per questo è un leader politico che più di altri, penso al presidente francese Nicolas Sarkozy, ha una vision molto più chiara della posta in gioco nel capitalismo. Questo vuol dire che è più pericoloso di altri esponenti della destra europea o statunitense. Non ci troviamo quindi di fronte a un personaggio da operetta, che va a donne e promulga leggi ad personam. C'è anche questo. La tragedia presenta sempre momenti da operetta. C'è però tragedia quando si manifestano conflitti radicali, dove non c'è possibilità né di mediazione né di salvezza. Sarà quindi interessante vedere come evolverà la situazione italiana, che non rappresenta, e su questo sono d'accordo con lei, un'anomalia, ma un laboratorio politico il cui esisto condizionerà tantissimo il futuro politico dell'Europa. In Olanda, Svezia, Norvegia, Danimarca, Francia, Inghilterra ci sono infatti forze politiche populiste che raccolgono sempre più consensi elettorali grazie alle campagne antimigranti che conducono, ma non hanno quella radicalità che presenta la situazione italiana.
Detto questo non bisogna però sviluppare una visione apocalittica della realtà, Certo, c'è una guerra civile strisciante nelle società capitaliste; l'inquinamento ambientale ha raggiunto i livelli di guardia, la democrazia è ridotta a un simulacro, eppure non tutto è perso. Anzi come dimostra la recente crisi economica, quando tutto sembra perso si aprono spazi per un'azione politica radicale, che io chiamo comunista. Prendiamo il recente summit sull'ambiente tenuto nei mesi scorsi a Copenaghen. L'esito finale più che avere un esisto deludente è stato un disastro politico. Ci sono proposte, sconfitte nei lavori del summit, che indicano nella salvaguardia dell'ambiente una delle priorità per salvare il capitalismo. Potremmo pensare a un'alleanza tattica con chi le porta avanti. La crisi economica ha inoltre richiesto un'intervento dello stato per salvare dalla bancarotta imprese, banche e società finanziarie. Ma questo ha significato che il tabù sulla pericolosità dell'intervento regolativo dello stato è stato infranto. Questo potrebbe rafforzare i socialisti, cioè coloro che puntano a una redistribuzione del reddito e del potere. Non è la politica che io amo, ma apre spazi a proposte più radicali. In altri termini, ritorna forte l'idea comunista di trasformare la realtà. Ciò che propongo non è un mero esercizio di ottimismo della ragione, bensì la consapevolezza che ci sono forze e rapporti sociali che possono essere liberati dalla camicia di forza del capitalismo.
Toni Negri e Michael Hardt pensano che accentuando le caratteristiche del capitalismo postmoderno si creino le condizioni per il governo del comune, cioè del comunismo grazie a quelle che definisco le virtù prometeiche della moltitudine. Più realisticamente penso che occorre organizzare le forze sociali oppresse per un'azione praticabile nel presente e nell'immediato futuro.

Lei scrive, in sintonia con Alain Badiou, che il comunismo è un'idea eterna. Una politica «comunista» deve tuttavia ancorarsi a un'analisi dei rapporti sociali di produzione e delle forme che essi assumono in una contingenza storica. Si può essere d'accordo o in dissenso con le tesi di Negri e Hardt sul capitalismo cognitivo, ma i loro scritti segnalano proprio questa necessità. Altrimenti, il comunismo diventa una teologia politica, non crede?
Non credo che, come fanno Hardt e Negri, che con lo sviluppo capitalista le forze produttive entrino, prima o poi, in rotta di collisione con i rapporti sociali di produzione. Occorre infatti agire politicamente affinché ciò accada. È questa l'eredità di Lenin che non potrà mai essere cancellata. Usciamo però fuori dai sacri testi e guardiamo al capitalismo reale. Esiste certo uno strato di forza-lavoro cognitiva, ma anche . chi continua a lavorare in fabbrica e chi, come i migranti, sono ridotti in una condizione di sottomissione servile nel processo lavorativo. Per non gettare nella discarica della storia questi «esclusi» o «marginali», serve cioè una forte immaginazione politica per ricomporre e unire i diversi strati della forza-lavoro. La teologia è sempre affascinante, ma quando dico che l'idea comunista è eterna mi riferisco al fatto che è una costante della storia umana la tensione a superare le condizioni di illibertà e sfruttamento. Per questo, il comunismo torna sempre, anche quando tutto faceva prevedere che fosse rimasto definitivamente sepolto sotto le macerie del socialismo reale.

domenica 18 aprile 2010

L'Afganistan ha bisogno di loro

Li hanno liberati! Matteo Dell'Aira, Marco Garatti e Matteo Pagani sono liberi!



Ecco alcune testimonianze di Matteo, pubblicate sul sito di emergency poco prima di essere arrestato, che raccontano con poche parole pesantissime la crudeltà della guerra che tocca e distrugge la vita dei bambini afgani.

afganistan: 18 febbraio 2010

Anche a Nadali, altro distretto non lontano dall'ospedale di Emergency a
Lashkar-gah, stanno combattendo ormai da giorni.
Akter Mohammed è arrivato poco fa con il padre Wali Jan, un uomo di almeno 60 anni con una folta barba bianca.
Un proiettile, uno solo, gli ha passato la testa da parte a parte.
È ancora vivo e lo stanno operando.
Il padre urlava e si dibatteva il petto, non solo per quello che hanno fatto a suo figlio, ma anche per il modo.
Akter era in casa sua, dietro a una finestra su cui batteva il sole.
La sua curiosità l'ha spinto ad avvicinarsi per vedere cosa stava succedendo fuori, con tutti quei rumori di blindati e di armi.
Un soldato ha intravisto una sagoma dietro il vetro e ha sparato. Colpo singolo alla testa.
Poi gli altri sono entrati in casa, urlando e facendo alzare le mani al padre, spingendolo con forza contro il muro.
In un angolo, sotto la finestra, hanno visto il risultato del proiettile esploso contro la sagoma che appariva alla finestra.
Un bambino di nove anni. Nove.
Appena l'hanno visto a terra ferito e spaventato, se ne sono andati. Senza una parola.
Non si abbandona così nemmeno un cane.

afganistan: 19 febbraio

Gulaly ha una bellissima treccia di capelli scuri scuri e due occhi chiarissimi.
A Dilaram, altro villaggio dopo il distretto di Grishk, era davanti a casa.
Stava curando i pochi animali che molte famiglie afgane hanno e che permetteno loro di sopravvivere.
Ha sentito i rumori della guerra avvicinarsi, ha visto il fratellino più piccolo che si stava allontanando troppo.
E’ corsa da lui, lo ha preso in braccio ed è corsa verso casa.
Appena entrata, dopo essersi seduta, ha sentito una grande fitta di dolore e un intenso bruciore al fianco destro.
Allora la mamma l’ha guardata, ha visto un buco nei vestiti, del sangue.
Girandola ne ha visto un altro di buco, nella schiena,e ancora sangue.
Il padre l’ha carica in macchina, quella dello zio, hanno fatto pochi metri ma sono stati fermati.
Non si può passare, è ormai tardi, dicono gli stranieri.
Così la riportano in casa, ascoltando i suoi lamenti per tutta la notte.
Di mattina presto riescono finalmente a partire.
Gulalay è arrivata all’ospedale di Emergency a Lashkar-gah nel primo pomeriggio, dopo quasi 24 ore dal colpo di proiettile che l’ha ferita. E’ stata operata subito e ora, nonostante qualche drenaggio, sta bene, ma non ha nessuna voglia di sorridere.
Gulalay ha 12 anni.
Ennesimo ‘effetto collaterale’.

afganistan: 20 febbraio

Khudainazar è un ragazzino di 11 anni, con la faccia sveglia.
Era fuori dalla sua casa, a Nadali, era andato a riempire le taniche di acqua.
Improvvisamente ha sentito un gran bruciore e ha lasciato cadere l’acqua che stava trasportando.
E’ arrivato, dopo mille peripezie ed un viaggio estenuante, al nostro ospedale con una ferita da proiettile che è entrato all’inguine sinistro ed è uscito dal gluteo destro.
Proiettile sparato da ‘stranieri vestiti da guerra’.
E sì che non è carnevale, qui.
Per sua fortuna nessun organo vitale è stato danneggiato, stentavamo a crederci anche noi.
Non appena è arrivato, ha chiesto di Akter, il ragazzino che abbiamo ricevuto l’altro ieri con la testa trapassata da un proiettile.
E’ un suo amico, sono vicini di casa, giocano sempre insieme.
Auguro loro di poter un giorno raccontarsi a vicenda questa loro tragedia, davanti ad una tazza di te', mentre fuori i rumori della guerra saranno finalmente scomparsi.

afganistan: 21 Febbraio

Fazel Mohammed ha due occhi azzurri che parlano.

Il suo piccolo corpo è già pieno di cicatrici, ricordi di gioco e di malattie che da noi sono scomparse ormai da anni.

Una delle poche zone del suo corpo ancora intatte erano le ginocchia.
Ci ha pensato un proiettile, che lo ha rovesciato a terra mentre giocava in giardino, a lasciargli un bel segno.

E’ arrivato da noi grazie ad uno zio dopo tre interi giorni in cui non si è potuto muovere da casa sua,a Marjah.

Ora avrà anche lì due belle cicatrici, quelle del foro di entrata e del foro di uscita di quel maledetto pezzo di metallo.

Si è già messo in piedi, vuole andare a casa, è preoccupato per i suoi familiari.
Sembra un uomo, ma ha 10 anni.
Da noi i bambini di dieci anni fanno la quinta elementare.
E non rischiano la vita per la guerra.

afganistan: 22 febbraio

Stavamo per andare a casa, verso le 8 di sera, quando ci chiamano dal Pronto Soccorso: sono arrivati due feriti, uno da proiettile e uno da scheggia, stabili ma con ferite vecchie di 7 giorni.
Quando arriviamo, c’è una macabra sorpresa: due bambini, fratelli, seduti sulle sedie con una mano ciascuno bendata e sporca di sangue.
Il più grande, Majeed Gul, ha 7 anni, e ha perso un dito della mano destra.
Il più piccolo, Ghami, ha 5 anni e ha perso un dito della mano sinistra.
Sono troppo stanchi e spaventati per lamentarsi del dolore.
Il padre, un omone enorme, è riuscito ad uscire da Marjah solo oggi e ha fatto un viaggio pericoloso e lungo per poter portare i suoi due bambini al nostro ospedale.
Si fermerà anche lui per la notte, ormai fuori è buio e lui è stremato.
I suoi bambini riceveranno le cure necessarie, in un ambiente pulito, accuditi da staff preparato, insieme ad altri bambini con altre bende in altre parti del corpo.
Sperando che ciò possa alleviare almeno un po’ l’orrore che hanno respirato nell’ultima settimana.

afganistan: 23 febbraio

Verso le 10.40 della mattina, alla stazione degli autobus di Laskar-gah, è esplosa una bomba.

Abbiamo sentito molto bene il rumore dell’esplosione dal nostro ospedale e il nostro staff si è subito dato da fare per capire quanto vicino fosse successo.

Dopo una ventina di minuti sono arrivati 22 feriti. Abbiamo messo in atto il ‘Mass Casualty Plan’, il protocollo che adottiamo in caso arrivino nello stesso momento un gran numero di feriti.

Tre sono arrivati morti, un ragazzo è deceduto durante l'operazione.
Tutti gli altri stanno bene, alcuni di loro sono già stati dimessi.

E come sempre in queste situazioni extra-ordinarie, la risposta dell’ospedale è stata commovente: ognuno ha aiutato, ognuno ha contribuito alla salvezza dei feriti e allo svolgersi veloce di tutto il processo.

Alcuni dello staff che erano di riposo sono venuti in ospedale senza nemmeno che li chiamassimo, per aiutare la loro gente. Persone sconosciute sono venute a donare il sangue spontaneamente.

Alla fine di tutto, il nostro farmacista Safiullah, un ragazzo timidissimo e molto educato, è venuto a chiedere se poteva chiamare casa per assicurarsi che nessuno dei suoi familiari fosse rimasto ferito. L'ha chiesto solo dopo che tutti i pazienti avevano ricevuto le cure adeguate…

afganistan: 27 Febbraio

Sono arrivati stamattina al Pronto soccorso dell'ospedale di Emergency a Lashkar-gah, verso le 11.00.
Ci stavano in due in una sola barella, tanto erano piccoli.
Nagibullah, 5 anni, schegge di bomba su tutto il corpo.
Naquibullah, 7 anni, un piede ‘esploso’ e tante schegge dappertutto.
Sono fratelli, arrivati con l’elicottero da guerra.
Vengono da Marjah, l’incidente’ è accaduto stamattina presto.
C’era anche il padre, con loro, Abdul Walli. Quando abbiamo dovuto spiegargli che al più grande sarebbe stata amputata la gamba, ha voluto vedere la ferita e ha chiesto a suo figlio di tentare di muovere quello che rimaneva del piede.
Stavolta non abbiamo voluto sapere cosa stavano facendo, non c’è nessun motivo al mondo che possa giustificare questo orrore chiamato 'guerra'.

afganistan: 3 Marzo

Sono arrivati all'ospedale di Emergency a Lashkar-gah alle 19.15, con il loro papà Anar Gul, tramortiti dalle ferite e dallo spavento.
Bambini come tutti i bambini del mondo, che in giardino giocano tra loro.
Solo che in questo paese nei giardini delle case si possono trovare oggetti molto strani, che suscitano la curiosità soprattutto dei più piccoli.
Uno di loro ha cominciato a tirare sassi all'oggetto sconosciuto, ma visto che nulla succedeva, ha pensato di dargli fuoco con un accendino trovato chissà dove.
L'ordigno è esploso, e ha ucciso subito Masullah, 6 anni e Safiullah di 11.
Sharifullah, 7 anni, è arrivato da noi pieno di schegge su tutto il corpo.
Ed insieme a lui, è arrivata la sorella, Rahmat Bibi, con due brutte schegge che le hanno perforato la pancia.
I chirurghi l'hanno operata subito, la mascherina per l'ossigeno era quasi più grande del suo faccino.
Perchè Rahmat Bibi ha circa 1 anno. E ha già incontrato la follia della guerra.

afganistan: 8 marzo 2010

Oggi siamo contenti.
Roqia, Gulalay, Said Rahman, Khudainazar, Fazel, Ali Mohammed, Akter Mohammed, Majeed Gul, Ghami, Najibullah, ricoverati nelle passate settimane all’ospedale di Emergency, sono stati dimessi e stanno bene.
Naquibullah, l’ometto di 7 anni, finalmente ha sorriso dopo una seduta di solletico, nonostante abbia perso una gamba. Ora gira nelle corsie sulla sedia a rotelle per salutare gli altri pazienti: chissà se pensa ai suoi due fratelli che sono morti durante l’attacco a Marjah.
Per tutto il tempo del ricovero, Sharifullah, 8 anni, ha letteralmente ‘protetto’ la sorellina Rahmat Bibi di un anno, che si calma solo quando è abbracciata a lui.
Per fortuna oggi è arrivata anche la mamma di Bibi, che così ha potuto allattarla: in questi giorni la piccola ha rifiutato qualsiasi cosa le venisse offerta, dal latte in polvere ai dolcissimi frullati di frutta.
Non la vedevamo dal giorno del ricovero di Bibi. Si è scusata con le infermiere per l’assenza: nel frattempo, ha dovuto seppellire gli altri due suoi bambini morti nello stesso incidente…

afganistan: 31 marzo

Alle 11.00 di questa mattina, abbiamo iniziato a ricevere i feriti di un’esplosione avvenuta nel villaggio di Babaji, a mezz’ora di macchina da Lashkar-gah.
Era giorno di Mellà, il mercato tradizionale che si sposta ogni giorno in un villaggio diverso.
La gente lavora sodo tutta la settimana per portare i propri prodotti da vendere al mercato. Si trova veramente di tutto, dall’artigianato, agli animali, ai vestiti, agli alimentari.
Improvvisamente, in mezzo alla folla, c’è stata una violentissima esplosione e poi urla, grida e sangue dappertutto.

La prima ambulanza ha portato all’ospedale di Emergency 6 bambini, feriti e terrorizzati. Gambe, braccia, mani, visi pieni di sangue e bende. Non uno che piangesse.
Abbiamo perso il conto delle ambulanze che sono entrate dal nostro cancello.
L’ultima ha trasportato Noor Ali, sette anni, due ferite sulla natica e sulla coscia destra.
Era alla fiera anche lui con suo padre, per comprare delle pecore.
All’improvviso c’è stata l’esplosione: tra la gente che scappava urlando, ha visto l’asino con cui erano arrivati a terra, morto.
Noor Ali era inconsolabile, ma non per il dolore delle ferite: nell’esplosione avevano perso il bene più importante per il sostentamento della sua famiglia.
In tutta la giornata, abbiamo ricevuto 29 pazienti: 20 sono stati operati, 9 sono stati medicati e torneranno fra due giorni per la visita di controllo.

Matteo, Lashkar-gah

venerdì 16 aprile 2010

La legge salva-effetti e i diversamente concordi del PD

Dal Fatto.

Scappellamento a destra

di Marco Travaglio

Siore e siori, sempre più difficile! Pur di non opporsi, l’opposizione all’italiana chiamata Pd s’è prodotta ieri in un triplo salto mortale carpiato con avvitamento e scappellamento a destra, un numero mai riuscito né provato prima d'ora. Ricordate il decreto salva-liste che sanava ex post le illegalità nella presentazione delle liste Pdl a Milano e Roma? Bene, era illegale, incostituzionale e inutile. Illegale perché una legge del 1988 vieta i decreti in materia elettorale (onde evitare il rischio che si voti con una regola e poi, se il decreto non viene convertito in legge, quella regola decada dopo il voto e si debba tornare alle urne). Incostituzionale perché sanava solo le irregolarità di alcune liste e non di altre e perché cambiava le regole del gioco a partita iniziata. Inutile perché modificava per via parlamentare una legge regionale. Incuranti di questi dettagliucci, i presidenti del Consiglio e della Repubblica lo firmarono a piè fermo. Il Pd gridò allo scandalo (ma solo per la firma di Berlusconi: quella di Napolitano era ottima e abbondante), annunciò la fine del “dialogo sulle riforme”, portò la gente in piazza del Popolo a protestare contro l’atto eversivo. Motivazione ufficiale, fremente di sdegno: “Se il governo indossa gli anfibi e scende in piazza con attacchi violenti contro le istituzioni, noi non restiamo certo in pantofole”. Qualcuno, chiedendo scusa alle signore, parlò financo di regime. Non contenti, due giorni fa i piddini organizzarono un’imboscata per affossare il decreto alla Camera, bocciandone la conversione in legge grazie alle consuete assenze nella maggioranza e alle inconsuete presenze
nell’opposizione. Un miracolo mai accaduto prima: l’opposizione più stracciacula della storia dell’umanità riesce a mandar sotto il governo, senza sopperire con le proprie assenze – come invece era accaduto sulla mozione anti-Cosentino e sullo scudo fiscale – a quelle endemiche del centrodestra. Ma niente paura: l’illusione di un’opposizione che si oppone è durata l’espace d’un matin. Ieri il Pd, sgomento per l’inatteso e involontario successo, s’è subito pentito. Ha riposto gli anfibi, ha recuperato le pantofole di peluche ed è tornato al suo passatempo preferito: l’inciucio. Tenetevi forte, perché la notizia è grandiosa: onde evitare di invalidare le elezioni regionali appena tenute in base al decreto ormai defunto, la maggioranza più comica della storia ha presentato in fretta e furia una leggina per salvare gli effetti del decreto medesimo, ribattezzata dai magliari di Palazzo Chigi “legge salva-effetti”, e sbrogliare il gran casino creato dal Banana con la partecipazione straordinaria di Napolitano. Così il decreto, cacciato dalla porta, è rientrato dalla finestra in meno di 24 ore. A quel punto qualunque persona sana di mente avrebbe mantenuto le posizioni di partenza: la maggioranza pro-decreto avrebbe detto sì alla salva-effetti, l’opposizione anti-decreto avrebbe detto no. E infatti l’Idv ha detto no e perfino l’Api di Rutelli s’è astenuta. Indovinate come ha votato il Pd? A favore (a parte Furio Colombo e poche altre persone serie), a braccetto col Pdl e la Lega. Ne saranno felici le migliaia di persone che si erano fatte convincere a calzare gli anfibi e a scendere in piazza del Popolo contro “l’attacco violento alle istituzioni”. Era tutto uno scherzo. Il Pd era contro il decreto, ma non contro i suoi effetti. Tant’è che ieri ha contribuito a ripescarli. Un voto del tutto inutile, vista la maggioranza bulgara Pdl-Lega, ma comunque indicativo dell’amorevole trepidazione con cui i diversamente concordi del Pd seguono le porcate del Banana. Lui li insulta e loro lo salvano anche se lui non vuole. Per questo sbaglia il capogruppo dell’Idv Massimo Donadi quando afferma che non si tratta comunque di inciucio “perché il Pd non ha avuto nulla in cambio”. Gli inciuci dei centrosinistri col Banana sono sempre a senso unico: lui ci guadagna, quelli ci perdono. E’ un do ut des senza des. Ma quelli continuano. Si divertono così.

Testimoni del peggio della guerra

Cosa sta succedendo in Afganistan?

Tre volontari di Emergency, Matteo Pagani, Marco Garatti e Matteo Dell'Aira, sono stati arrestati con accuse che prevedono la pena di morte.

Ecco una testimonianza che mi è giunta per mail da parte di amici. È la lettera di Daniela Migotto, che non conosco personalmente. Daniela chiede a tutti noi di diffondere e far conoscere l'infamia delle azioni di guerra che il nostro governo sta sostenendo in Afganistan.


Carissimi Amici!

E' successa una cosa terribile. Hanno arrestato Matteo. Penso che nemmeno Kafka sarebbe riuscito ad immaginare una tale scenario per lui e per i suoi colleghi, finiti come lui in questa assurda trappola. Stiamo pregando, stiamo cercando di tenere alte le speranze di Paola e Noa, stiamo facendo sentire la nostra voce al governo italiano che, indipendentemente dalle simpatie politiche, non sta adeguatamente proteggendo dei suoi cittadini. Anzi, non sta facendo nulla per difendere l'immagine di un'organizzazione che in tanti anni ha reso onore a questo Paese. Così come hanno sempre fatto i suoi operatori.

Sì, sono di parte, lo sapete. Perché io posso dire di conoscerli. E quindi mi permetto di bussare alle vostre porte, certa di quanto affermo. Mai, in nessuna condizione, in nessuna assurda realtà parallela come può essere un teatro di guerra, una persona come Matteo avrebbe potuto nemmeno lontanamente immaginare di attentare ad una vita umana. Lui, che ha sempre dato tutto se stesso e anche di più ai feriti, ai pazienti, alle "persone" che si presentavano al loro ospedale, senza chiedere né nomi, né fede politica o religiosa, né compensi. In nome del sacro diritto di ogni essere umano di ricevere nel momento del bisogno le migliori cure possibili. Sempre e comunque. Sacrificando parte della sua vita a sconosciuti bisognosi.

Mi permetto, senza chiedere consenso a Paola e me ne scuso, di riportarvi quanto scriveva Matteo qualche settimana fa... giusto per farvi comprendere, se ce ne fosse bisogno, perché io credo in lui e in Emergency (e perché capisco in pieno Gino quando parla di testimoni scomodi...).

"...Vergogna.

E’ quella che proviamo tutti qui all’ospedale di Emergency a Lashkar Gah, Afghanistan, dopo l’inizio dell’ennesima ‘grande operazione militare’, che ogni volta è la più grande…

Un profondo senso di vergogna per quello che la guerra, qualsiasi guerra, fa.

Distruzione, morti, feriti.

Sangue,pezzi di carne umana.

Urla feroci e disperate.

Non fa altro.

Ma qualcuno ancora pensa che sia un buon modo per esportare ‘pace e democrazia’.

In effetti la pace la stavano portando anche a Said Rahman, noto ‘insurgent’ della zona, ma quella eterna però.

Si è beccato un proiettile in pieno petto, di mattina presto, mentre era in giardino.

Non stava pattugliando la zona, non stava combattendo, non stava mirando nessuno.

Said Rahman non ha nemmeno visto da dove arrivava il proiettile che ha ancora nel corpo e che gli ha sfondato il polmone di destra.

Ha solo sentito un gran bruciore e poi è svenuto dal male.

L’hanno trasportato in elicottero fino a Lashkar gah,gli stessi elicotteri che prima sparano, poi in ambulanza nel nostro centro chirurgico per vittime civili della guerra ,abbastanza instabile ma con il suo orsacchiotto di peluche nuovo di zecca,regalo della democrazia. Sembrava avesse la gobba da tanto sangue si era raccolto nella schiena.

E’ stato operato subito, gli hanno messo due drenaggi toracici, quasi più grandi di lui.

Perché il noto ‘insurgent’ ha sette anni.

Sette.

Questa è la ‘grande operazione militare’, la più grande.

Vergogna."

Questo è Matteo. Questa è la realtà a cui ha dedicato tanti mesi della sua vita. Perché ce n'era bisogno e lui non si è girato dall'altra parte. Vi sembra che chi ha potuto scrivere queste parole possa anche solo pensare di commettere un attentato? Ora tutti sappiamo quanto sta rischiando. Ancora una volta la vita. Perché signori, per le accuse che gli hanno mosso è prevista la pena di morte.

Non ho altre parole. Scusate se latiterò nelle mie risposte a quanti aspettano news su altri argomenti.

Vi chiedo una sola cosa, per il momento. Se condividete la mia indignazione e il mio desiderio di far sapere che tutto questo non ci sta bene, vi prego di sottoscrivere la raccolta di firme che Emergency ha lanciato sul suo sito. Io ho faticato a riuscirci perché il sito era intasato da migliaia di collegamenti, ma vale la pena insistere un po', se potete.

http://www.emergency.it/

Un'ultima preghiera, se potete: diffondete questa notizia e fate conoscere ai vostri amici e cari l'appello per la raccolta firme.Le persone arrestate, da anni rischiano la vita per salvare quella di altri che hanno bisogno. Oggi sono loro ad aver bisogno di noi.

Grazie,

Daniela Migotto

mercoledì 14 aprile 2010

Delenda Carthago

Dal Fatto di oggi un'analisi sulla situazione politica di oggi in un'intervista a Camilleri.

“Vogliono suicidarsi Si mettano in analisi”

CAMILLERI: IL PARTITO TIENE L’ANIMA COI DENTI, È PIÙ DI LÀ CHE DI QUA

di Silvia Truzzi

Nel fumoso studio di Andrea Camilleri oggi si parla del Pd un po’ in cenere. “Io non appartengo al Pd. Posso, quando sono disperato davanti alla scheda, al massimo vo-tarlo. Come si dice a Firenze: il Pd tiene l’anima coi denti. È più di là che di qua. Dalla parte avversa invece c’è molta aggressività. Come la polizia quando
si mette lo scudo antisommossa, abbassa le visiere e attacca alla cieca. Da quest’altra parte non c’è che una flebile resistenza . Chi sta appena dietro la prima linea, sembra dire: trovate un accordo, invece che farvi menare. Accordo tra chi e chi? L’accordo si fa in Parlamento. Lo sostiene Bersani e pure la Costituzione. Ma noi non siamo nei termini costituzionali, siamo dentro una democrazia finta. La maggioranza in Parlamento va avanti a voti di fiducia e decreti, mettendo a tacere l’opposizione. L’opposizione parlamentare è un’utopia? Sì. L’unica possibilità è che l’opposizione si faccia anche fuori. Esattamente come la Lega. Politica sul territorio? L’astrazione in politica non esiste. In politica esiste questa casa, questa via, la casa accanto e la via accanto. Una volta c’erano le sezioni con gli attivisti. Eravamo sfottuti noi del Pci che avevamo sezioni e agit-prop. Era quello che teneva in piedi il partito. Il mio amico Leonardo Sciascia disse una volta che c’erano due parrocchie: quella del Pci e quella vera. Ecco, una ha continuato a esistere. L’altra è scomparsa. A Raiperunanotte hanno parlato i centenari, Dorfles e Monicelli. E le cose più giuste, che hanno atterrito i cinquantenni, le ha dette Monicelli parlando di rivoluzione. E sconvolgendo Giovanni Floris che ha cercato subito di metterci una pezza. Cosa vuol dire rivoluzione? Nessuno di noi è così cretino da pensare che sia ‘bandiera rossa e scendiamo tutti in piazza’. Monicelli vuol dire che se non si hanno idee rivoluzionarie rispetto al contesto politico attuale, con questa gente non andiamo da nessuna parte. Come disse un altro regista. In politica non si può essere un uomo buono per tutte le stagioni. Ci sono stagioni buone per ogni uomo politico. Parliamo di D’Alema? D’Alema è come il fantasma dell’opera: non si sa mai che fa nel sottopalco. Si è detto che Bersani è una creatura di D’Alema. Magari. E invece che cos’è? Uno che non tiene conto delle sollecitazioni che gli arrivano. Dai 49 senatori, da Prodi. E allora? Il marxismo prendeva atto della realtà e agiva di conseguenza. Oggi nessuno è marxista perché è un marchio d’infamia e nessuno tiene conto della realtà. Se Bersani fosse un personaggio letterario? SarebbeRubè di Peppe Antonio Borgese: non sapendo che cosa fare, a un certo punto viene travolto dai cavalli della polizia tentando di mediare tra destra e sinistra. Non gli auguro certo questo destino. Soluzioni, allora. Ci vuole uno slancio di utopia. Finchéquesti-comedicevaGuicciardini - restano ancorati al particulare, alle poltrone, si muore soffocati. Stanno dentro un pallone, non sono più sulla terra. Non sanno, anche se lo dicono, cosa sono i problemi reali. Ma proclamarlo non basta, perché dall’altra parte c’è un muro. Allora devi trovare i modi per vincere e poi occuparti delle cose vere. Ecco, il lessico del Pd sembra un po’ altrove. Bersani dal Messaggero: ‘È possibile rafforzare sia gli elementi di pluralità che i presidi dell’unità’. Ma che vuol dire? È un segno, sono bloccati nel tempo. ‘Ce l’ho duro’ è un modo di comunicare. Volgare, populista, ma se la gente vuole questo non puoi parlare con ‘i presidi dell’unità’. Bersani ha brindato al risultato delle Regionali. Quando ero piccolo si studiavano i detti di Fra Galdino. Me ne ricordo uno. Due contadini zappano, ad un certo punto uno si china e s’inzecca un ramo nell’occhio. E dice: meno male. E l’altro: perché meno male? Perché se il ramo era forcelluto, di occhi me ne cavava due. Per favore, lo racconti a Bersani. Cosa pensa delle “riforme condivise”? Vizio antico. La Bicamerale mica l’ho inventata io. Però un pregio ce l’ha avuto: ha sdoganato Fini. È una fortuna? Gesù mio, sì. A me non frega niente se le sue posizioni sono frutto di una tattica. Ci fa vedere una destra europea che si può rispettare. Davanti a un guastatore continuo della Costituzione come Berlusconi, chi difende i principi ha la mia solidarietà. Anche se oscilla. A proposito di baluardi: e Napolitano? È lui che dovrebbe reclamare più potere, non Berlusconi. Se gli capita una legge che non gli va giù gliela possono rimandare così com’è e lui la deve firmare. Il rinvio, in alcuni casi, avrebbe potuto essere un messaggio politico. Io avrei fatto come lui: Napolitano sa che se ora piove, tra poco grandinerà. Hanno fatto la Padania. Cosa ne pensa un siciliano? Sono segni di scricchiolamento della nazione Italia. La crisi ha accelerato il processo di padanizzazione. Hanno pensato: qui c’è la ricchezza, teniamocela, pensiamo ai cazzi nostri. Vedo lo spettro di un Sud sempre più povero. Il Pd ha fatto passi falsi anche a Sud. Come la candidatura di De Luca. Quelli del Pd sono come i lemuri che a un certo punto dell’anno s’inquadrano tutti e si buttano a mare. Ma dico: fatevi visitare. Mettetevi in analisi. A Enna si parla di una candidatura di Crisafulli, che fu coinvolto in un’inchiesta di mafia. Sì, lì vince. Però... Però cosa? Se Berlusconi lo si combatte su questo campo, a criminale criminale e mezzo, noi siamo perdenti perché non ce l’abbiamo una disponibilità umana così importante. Per uno di loro ne dovremmo trovare uno e mezzo. Ma con tutta la buona volontà noi possiamo avere cose da poco e comunque perdiamo. Si è prospettata, con Saviano, una soluzione “esterna alla politica” per il Pd. Cosa ne pensa? Non si può andare avanti con la politica tradizionale se dall’altra parte vince chi fa una politica non tradizionale. Allora chi ci metti davanti? Un Papa straniero? Catone il censore rispondeva sempre a tutto delenda Carthago. Se politicamente non si elimina Berlusconi, io dico sempre delenda Carthago. La soluzione giudiziaria mi fa paura come quello che gli tira la statuetta. Quale soluzione giudiziaria? Se ci sono reati vanno perseguiti. Così il premier diventa un martire. La magistratura oggi fa il suo mestiere. Fino a Mani pulite, era un pilastro del governo. Ora che la magistratura ha trovato una sua autonomia, l’hanno buttata in politica. Come se prima non lo fosse. Mi piace di più sapere che da qui a tre anni Berlusconi avrà perso altri milioni di voti. Perché se li perde non li perde per “colpa” della sinistra, li perde perché la gente si sta rendendo conto. Si renderanno conto che fino ad oggi si è occupato di materie che lo interessano, come la giustizia? Certo. Ma quando mai si è occupato del Paese? Il 99 per cento delle leggi sono pro domo sua. La patente a punti è stata una cosa buona. Mussolini fece la battaglia contro le mosche. Travaglio ha scritto sul Fatto di ieri ‘La legge è uguale per gli altri’. Perfetto. È La fattoria degli animali. Nel momento in cui uno dice ‘non mi rompete le scatole, non mi processate adesso, ne parliamo tra un anno’ cade qualunque impalcatura. Propongo di levare il cartello ‘La legge è uguale per tutti’ dai tribunali: ci facciamo ridere dietro. Ci crede al regime? Sono stato uno dei primi a parlare di regime, nel ‘94 con Bobbio e Sylos Labini. Fui sputtanato e sbeffeggiato da tutti. Toh, c’è aria di regime. Ma davvero? A cosa andiamo incontro? Al sogno di Calderoli. Nel 2013 avrete un capo del governo leghi-sta e Berlusconi presidente della Repubblica. Io a settembre faccio 85 anni. Auguri a voi.