mercoledì 26 maggio 2010

L' abuso d'ufficio è "lecito" per lo statuto del PD

Dal Fatto.

Codice epico

di Marco Travaglio

U ltimissime dalla Sardegna. Mentre il governatore Cappellacci è indagato per lo scandalo delle pale eoliche, il Pd risponde da par suo con una bella lezione sulla questione morale: candida alla guida della Provincia di Cagliari il presidente uscente Graziano Milia, che il 9 marzo è stato condannato dalla Corte d’appello a un anno e quattro mesi di reclusione per abuso d’ufficio per un mega-scandalo di licenze edilizie facili, sanatorie indebite e autorizzazioni paesaggistiche fuorilegge perpetrate tra il 1999 e il 2003. Scandalo che aveva coinvolto l'Ufficio regionale per la tutela del paesaggio diretto dall'architetto Lucio Pani e la giunta comunale di Quartu Sant’Elena (di cui Milia era sindaco). Pani, controllore e controllato, secondo l’accusa era riuscito – grazie a una fitta rete di amicizie e complicità – a farsi autorizzare la costruzione a Baccu Mandara del complesso turistico-sportivo abusivo “Green Blue Center”, a ottenere indebitamente il terreno e a sbloccare concessioni indebite in sanatoria ed è stato condannato a 6 anni e 4 mesi. Milia, che ha annunciato ricorso in Cassazione, è stato pure interdetto dai pubblici uffici, pur godendo della sospensione condizionale della pena. Ma, se venisse eletto e la condanna fosse confermata in Cassazione, decadrebbe da presidente perché perderebbe il diritto di elettorato attivo e passivo, risultando incandidabile. Un capolavoro. Si ripete paro paro il caso di Vincenzo De Luca, condannato in primo grado per smaltimento abusivo di rifiuti e rinviato a giudizio due volte per associazione per delinquere, concussione e truffa,
dunque candidato dal Pd a governatore della Campania, dunque puntualmente sconfitto da Caldoro del Pdl, curiosamente incensurato. Ma con una fondamentale differenza: questa volta, memore forse della cantonata presa in Campania, Antonio Di Pietro non sosterrà Milia, diversamente dagli altri partiti del centrosinistra (sette liste), alcuni dei quali avevano giurato che mai l’avrebbero appoggiato e invece han deciso di appoggiarlo. L’Idv corre da sola candidando il deputato Federico Palomba, vicepresidente della commissione Giustizia della Camera, che non solo è incensurato, ma è addirittura un ex magistrato. Così almeno il centrodestra degli scandali e delle speculazioni non potrà sventolare la questione morale in faccia al centrosinistra e gli elettori di centrosinistra che non vogliono imputati o condannati nelle istituzioni avranno un’alternativa credibile all’astensione. A questo punto, a costo di essere noiosi, ripetiamo la domanda rimasta senza risposte sul caso Campania: che differenza c’è fra Berlusconi che candida condannati e imputati e il Pd che candida condannati e imputati? Con quale faccia l’opposizione può condurre una battaglia contro il malaffare dilagante, per esempio contro gli scempi ambientali di cui è complice la nuova giunta della Sardegna, se consegna un’istituzione fondamentale come la Provincia del capoluogo a un tizio condannato in appello proprio per complicità in uno scempio ambientale? Per il “Codice etico” del Pd sono incandidabili i condannati non definitivi “solo” per reati di criminalità organizzata, terrorismo, armi, droga, sfruttamento della prostituzione e omicidio colposo per inosservanza delle norme sulla sicurezza sul lavoro”, per corruzione e concussione. E l’abuso d’ufficio? Un reato minore? È quello commesso dal “pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge… ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto…, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale”. Siamo certi che favorire se stessi o gli amici abusando di un pubblico potere e violando la legge sia una quisquilia? Non è abbastanza odioso, nel paese dei privilegi e del familismo amorale, avvantaggiare qualcuno a discapito di altri e, in questo caso, anche dell’ambiente? La risposta dei berluscones la conosciamo. Chissà qual è, se c’è, quella del Pd.

venerdì 7 maggio 2010

È un film su come si costruisce una dittatura

“Draquila”, i vampiri delle emergenze. Sabina Guzzanti racconta il nuovo film

di Alessandra Mammì, L’espresso, 6 maggio 2010



"Nei giorni del terremoto, ci avevo creduto anch'io che il governo stesse reagendo bene all'emergenza. Tenevo a bada il mio antiberlusconismo, e mi ripetevo: chissà, stavolta, forse...".
Poi, però, è partita per l'Aquila Sabina Guzzanti. Partita, come dice nel suo film, dopo i grandi della Terra, le suore, i boy scout, gli studenti e George Clooney. Partita in luglio a vedere quel terremoto che si era trasformato in evento mediatico e in gigantesca occasione di propaganda per un Berlusconi che, grazie alla tragedia, risaliva lentamente nei sondaggi.
Così, era partita la Guzzanti, senza un gran progetto, con una vaga idea di film, una troupe fatta di tre donne e una camera digitale, nessuna particolare aspettativa. Certo non quella di rimanerci impigliata quasi un anno, di accumulare 700 ore di girato, di vivere un'esperienza che lascia il segno e infine di conquistare un posto d'onore (special screening) al Festival di Cannes.
Ed ecco 'Draquila': un film che non fa ridere nonostante la nota e feroce capacità di satira della regista e il titolo apparentemente ironico. Un film che non fa piangere nonostante il tema e il sottotitolo 'L'Italia che trema'. Un film sul potere e non sul dolore. Un film duro, a volte sarcastico, ma strettamente logico che porta avanti come un treno la sua tesi. Ovvero: l'Aquila è un laboratorio; un test che dimostra come si possano cambiare i patti sociali, alterare i principi costituzionali e di fatto sparare allo Stato col silenziatore, in modo che i cittadini non se ne accorgano. Il tutto spiegato stavolta senza urli faziosi, ma con raggelata pacatezza. Ed è piaciuto ai selezionatori di Cannes questo linguaggio secco a ciglio asciutto, con una punta acida, da sana scuola Michael Moore: stessa voce fuori campo, stesse domande tanto pertinenti da diventare impertinenti, stessi siparietti grafici con fatti e numeri, stesso montaggio serrato di testimonianze, opinioni e facce diverse, ma tutte travolte dal soffio della storia.
Uomini e donne in tendopoli militarizzate costretti a seguire la dieta dell''attendato' (no alcol, né caffè, né Coca-Cola); i senzatetto con nuova casa assegnata dal premier innamorati persi di Berlusconi; il vecchio professore che fa resistenza barricandosi nel suo appartamento: "Se quelli ti pigliano sei finito"; l'urbanista, teorico delle newtown, che spiega come un centro commerciale è molto meglio di un centro storico e una feroce sequenza sulla tenda del Pd vuota di uomini ma con molta spazzatura e avanzo marcito di panino con frittata.

Niente sinistra, Protezione civile militarizzata e un premier che spopola. Cominciamo dalla solitudine del panino?
"Troppo splatter, tutto verde e muffo. Questo è un film rigoroso, il panino non l'abbiamo inquadrato".

Rigoroso e spietato. J'accuse di 93 minuti che va ben oltre L'Aquila...

"Questa è l'intenzione. L'Aquila è una cartina di tornasole del malessere del Paese intero. Ho visto tutti gli ingredienti della nostra crisi: l'assenza di un'opposizione; il dilagare della propaganda; la speculazione; la criminalità organizzata; l'indifferenza della gente; l'impotenza di chi cerca di far qualcosa e resta solo; lo Stato parallelo che nasce mentre quello vero neanche se ne rende conto. È un film su come si costruisce una dittatura".

Anche 'Viva Zapatero' era un film sull'arroganza del potere. Cosa cambia qui?

"Noi: popolo italiano. In cinque anni siamo cambiati molto. Non si vede più una capacità di reazione, si è affievolito il ricordo della vita democratica, se ne è persa finanche la nostalgia. Si reagisce all'indignazione adattandosi, ci si costruisce una vita parallela, piccole strategie di resistenza. È così che se all'Aquila ti dicono 'questo lo decide il capocampo', non ti viene da rispondere: 'Ma chi è il capocampo? Chi lo ha nominato? Che rappresenta? In base a cosa è pubblico ufficiale?'. Si obbedisce come se fossimo finiti tutti nel club di Topolino".

Che cosa le fa più paura in Berlusconi?
"A me non fa nessuna paura Berlusconi. Penso che sia uno squalo che come tale mangia tutto ciò che trova intorno. Non ho niente contro gli squali, sono creature come le altre, basta che stiano al loro posto in fondo all'Oceano. Se invece uno squalo passeggia in via del Corso, mi preoccupo".

Spiegazione della metafora?

"Berlusconi non è arrivato al potere con strumenti democratici, perché in democrazia non si può fare il premier controllando tv e giornali e gestendo in prima persona la propaganda. La cosa che più mi ha colpito all'Aquila è quanto la televisione sia stata più forte del terremoto. La gente non distingue più tra realtà e finzione, anzi la realtà televisiva è spesso più forte di quel che vedono e sentono. Donne raccontavano di aver imparato dai loro nonni a fuggire alla prima scossa, ma il 6 aprile sono rimaste nelle loro case, solo perché il telegiornale le aveva rassicurate. Un uomo ha perso due figli perché quella notte li ha rimessi nei loro lettini, convinto dai media che non ci fosse alcun pericolo. Terribile dirlo, ma la propaganda all'Aquila è stata più forte degli antenati e persino dell'istinto di sopravvivenza. Quando sono le gambe prima ancora del pensiero a farti scappare se la terra trema. È chiaro adesso di che potere sto parlando?".

Chiaro. Ma allora come mai nel film ha fatto parlare tanti berlusconiani pazzi del premier che mostravano la meraviglia della casa assegnata con tanto di pentole e spumante in frigo?
"Perché non sono faziosa come si dice. E volevo capire e ascoltare. Capire come si possa rinunciare a una bellissima città, fatta di persone e monumenti, di vita e memoria per sostituirla con diciannove quartieri senz'anima, spuntati dal nulla, ai bordi di una strada statale, lontani fra loro che aspettano solo un centro commerciale. Un tempo mi era impossibile anche pensare di parlare con uno che vota Berlusconi. L'Aquila mi ha cambiato, voglio parlare con tutti. E tutti avevano una gran voglia di parlare. Nessuna intervista è durata meno di un'ora. Spesso si dilungavano fino a tre, quattro ore. Ancor più spesso me ne andavo io, se no si faceva notte. È così che sono arrivata a 700 ore di girato".

Ma non la riconoscevano? Non la identificavano come un nemico?

"Non mi riconosceva quasi nessuno. Non apparendo su Canale 5, ho questo vantaggio. Mi chiedevano solo: 'Lei di che televisione è?'. Io rispondevo: 'Nessuna, stiamo facendo cinema'. E loro: 'Brava! E quando va in onda?'. Non c'era verso. Persino ai posti di blocco i militari insistevano: 'Va bene cinema, ma cinema di che rete?'".

Nelle note di regia però lei ha scritto: "Ho scoperto di amare questo Paese". Perché?

"Perché come l'Aquila questo Paese lo stiamo distruggendo. E come spesso accade, ti accorgi di quanto ami qualcuno e di quanto sia prezioso, solo quando lo stai perdendo. Oddio, non sarò mica diventata patriottica!".

(4 maggio 2010)

Potere e Verità

Da Micromega.it.

Le vere radici dell’omofobia vaticana

di Pierfranco Pellizzetti

Sacrosanta indignazione e ricerca della verità impongono di non mollare mai la presa su un tema rovente quale la pedofilia dei preti e l’apparente contraddizione di una Chiesa che continua a occultare le verità al riguardo. Peggio, pratica atteggiamenti di sostanziale solidarietà con i propri orchi, come quel monsignor Giorgio Brancaleoni, vescovo vicario di Albenga, che ancora in questi giorni organizza fiaccolate di sostegno a don Luciano Massaferro, in carcere con l’accusa di aver violato una bimba.
Sicché ci sarebbero ragioni più che sufficienti per insistere senza il benché minimo tentennamento nello squarciare i veli delle reticenze, dell’omertà.
Eppure - sullo sfondo - aleggia un’apparente contraddizione ancora più inquietante: la singolare omofobia di un mondo vaticano in non trascurabile misura omosessuale (la maggior parte degli episodi di pedofilia sono avvenuti nei confronti di soggetti dell’identico sesso dei molestatori). Quell’omosessualità che Ratzinger ebbe a definire “comportamento disordinato” e il presidente CEI cardinale Angelo Bagnasco stigmatizza con la sua vocina stridula alla stregua di “una minaccia per l’italica virilità”.
Sorge dunque la domanda: quale l’inconfessabile ragione per cui “gli uomini con le gonne” (come li chiamava Gaetano Salvemini) perseguono con tale avversione orientamenti molto diffusi proprio tra di loro?
La risposta potrebbe essere trovata - come scriveva recentemente Marco Politi sul Fatto Quotidiano - proprio nell’indifendibile arcaicità del modello di reggimento che sino dalle origini la Chiesa si è dato: l’assolutismo monarchico; ossia analizzando le ragioni ultime del potere di un’istituzione bimillenaria fondata sulla gestione consolatoria del dolore e della paura: l’interesse primario al mantenimento di un ordine gerarchico che da millenni sovrintende la vita degli uomini e delle donne, controllando i corpi attraverso il dominio delle menti. E questo ordine si chiama patriarcato.
Dunque, la norma eterosessuale come difesa di un contesto in cui coltivare i principi gerarchici (patriarcali) che puntellano anche Sacra Romana Chiesa: tradizione e autorità, l’autorità indiscussa e indiscutibile della tradizione.
Insomma, c’è un naturale incontro di interessi tra diafani cardinali e bulimici porporati dalle dita ingioiellate con “gli eroi” della restaurazione machista di inizio millennio: dal guerrafondaio Bush jr. all’attempato vitellone sessuomane Berlusconi. L’alleanza tra tutti quanti si sentono minacciati dall’impatto dei soggetti collettivi che mettono a repentaglio il cardine del potere vigente, con il suo carico di dominio oppressivo: “la famiglia patriarcale eterosessuale, come paradigma esclusivo della relazione interpersonale e - insieme - come modalità di riproduzione sociobiologica della specie” (Manuel Castells). La rivoluzione, avviata dal movimento femminista e proseguita da quelli gay e lesbico; più in generale - come scrive Alain Touraine - i “gruppi definiti da un dato tipo di sessualità piuttosto che dal sesso del partner”.
Idea - se accettata - in grado di minare dalle fondamenta l’intero assetto del comando, clericale o laico che dir si voglia.
Questione di sopravvivenza. Ma anche motivazione reale di quella che Gian Enrico Rusconi, sulla rivista Il Mulino del dicembre scorso, definiva una “silenziosa rivoluzione teologica per cui dall’idea millenaria della natura umana decaduta per il peccato originario si è arrivati oggi a un discorso tutto positivo sulla natura umana, insidiata nella sua integrità originaria dalle biotecnologie o dalle famiglie irregolari”.
Forse, più che di rivoluzione si dovrebbe parlare di controrivoluzione, di arrocco nelle cittadelle assediate. Mentre la fede in una rivelazione non ha nulla a che vedere ed è la religione a secolarizzarsi in quanto legittimazione di una istituzione dominante. I cui nemici non sono le sofferenze e i mali che affliggono gli umani quanto umanissimi propugnatori di pietà come Beppino Englaro o documentate denunce di malefatte quali quelle dei giornalisti del New York Times.
Per questo fanno bene quanti, sulle orme di Albert Camus, si impegnano in una polemica contro chi tenta di barare. Ma l’etica del disincanto, che impone di “cercare ciò che è vero”, non può prescindere dal binomio rovente Potere-Verità. Perché tutte le vicende che stiamo denunciando trovano il loro senso più recondito nelle tattiche di un Potere che si giustifica ammantandosi di Verità (dunque, mistificandola). Costruendo Verità a proprio uso e consumo. Per cui il Vaticano pratica comportamenti esecrabili anche se poi fa di tutto per occultarli. Per cui si proclama la santità del vincolo familiare indissolubile e poi si fa mercato con pluridivorziati. Per cui si perseguita l’omosessualità coltivata nelle penombre dei palazzi e delle strutture ecclesiastiche.
La più flagrante conferma della formula che dobbiamo a Michel Foucault: “la verità nei suoi effetti di potere e il potere nei suoi discorsi di verità”.

(4 maggio 2010)

Un “fascista immaginario”

Dal fatto.

Dall’introduzione di “Gianfranco Fini - Sfida a Berlusconi”, edito da Aliberti.

L’ANTICIPAZIONE

Palmisano scrive del suo ex segretario

Fini, che è ancora un “fascista immaginario”

Io non sono un giornalista qualsiasi, uno dei tanti che avrebbero potuto
scrivere un libro su Gianfranco Fini. Nessuno lo avrebbe potuto scrivere come Enzo Palmesano per due motivi: per trent’anni ho fatto politica attiva nel partito del neofascismo italiano, anche quale componente del Comitato centrale del Msi-Dn e membro dell’Assemblea nazionale di An; porta la mia firma (l’ormai famoso “emendamento Palme-sano”) il documento di condanna dell’antisemitismo e delle leggi razziali approvato al congresso di Fiuggi, il 27 gennaio 1995. Quel documento diede credibilità (anche internazionale) alla svolta; scomparvero ufficialmente gli antisemiti dal partito erede del fascismo e della Repubblica sociale italiana di Salò, ma da allora in Alleanza nazionale gli anti-Palmesano diventarono un esercito. Fino alla mia più completa emarginazione, con gravi conseguenze sul piano politico e professionale e con grande dolore anche sul piano personale: camerati con i quali avevo fatto politica per decenni, da allora mi tolsero il saluto; non ci siamo più scambiati una parola nemmeno per litigare sul mio emendamento, neanche per esprimermi umana solidarietà a seguito di un lutto familiare, la scomparsa di mio padre. Volevano morto pure me. E politicamente parlando l’“ebreo Palmesano” è stato ammazzato, quantomeno non avevo più diritto all’esistenza in quello che era stato il mio partito. (...) La mia proposta piombò come una bomba nella vigilia del congresso nazionale, ma la parola d’ordine nel partito era quella di fare finta di nulla (...). Gianfranco Fini dimostrò che la sua levatura tattica era di gran lunga superiore a tutti gli altri dirigenti del partito. E mentre il suo staff diffondeva in Italia e all’estero il testo del mio emendamento, lui (padrone assoluto del partito) per realpolitik si preparava a cavalcare un’occasione propizia. Al congresso di Fiuggi Fini diede il via libera all’approvazionedell’emendamentoPalmesano,dicendo: “Chi non vota questo documento non può entrare in Alleanza nazionale. Dobbiamo scrivere nel Dna del partito il rifiuto di ogni forma di antisemitismo”. Non c’era stato bisogno di attendere un “Papa straniero” (come viene consigliato adesso al Pd, in altri scenari) per affrontare nel Msi-Dn e in An il nodo centrale, quello del fascismo e delle leggi razziali antisemite. Il documento era stato proposto da chi, come me, era missino fin dal 1972 (allora quattordicenne), capo del servizio politico del quotidiano del partito. Sul «Manifesto», Andrea Colombo sottolineò l’importanza del fatto che il documento fosse nato dal corpo vivo del partito. Ma ben presto dovetti rendermi conto che i tempi non erano maturi, per quella battaglia, all’interno del movimento erede del fascismo. Quando, infatti, appena dopo il congresso, furono pubblicate le tesi congressuali emendate, con il titolo Pensiamo l’Italia, il domani c’è già – Valori, idee e progetti per l’Alleanza nazionale, il mio documento, sebbene approvato,era stato tagliuzzato. Mancavano le ultime due righe: “La vergogna incommensurabile delle leggi razziali brucerà per sempre nellanostracoscienzadiUominiediitaliani”. Era troppo, per Fini e per gli altri, sostenere appunto che “la vergogna incommensurabile delle leggi razziali brucerà per sempre nella nostra coscienza di Uomini e di italiani”. (...) Paradossalmente, il finismo comincia quando Fini esce dai binari dell’almirantismo e riprende il discorso interrotto da Pino Rauti, che aveva abbandonato il partito al congresso di Fiuggi. Il “fascismo immaginario” di Gianfranco Fini ha molti punti in comune con il “fascismo immaginario” di Pino Rauti. Fino a che è rimasto a capo di Alleanza nazionale, Gianfranco Fini non è andato oltre il fascismo immaginario (...). La categoria del fascismo immaginario non sembri una formulazione intellettualistica. È, invece, la sostanza con cui tanti giovani hanno riempito la propria esistenza, a cominciare dall’autore di questo libro. (...) Il “fascismo immaginario” ha dato per tanti anni un senso alla mia vita. (...) Fini è ancora un “fascista immaginario”. Un “fascismo immaginario” che vuole presentarsi quale una “Destra nuova”. Una “destra dei diritti” che piace alla sinistra in difficoltà politica e in cerca d’autore e ai giornali antiberlusconiani. (...)

giovedì 6 maggio 2010

Quando i migranti eravamo noi


Dal Fatto.

CERTI IMMIGRATI

QUANDO FUMMO BRACCIA

Un “dizionario” di Stella per capire come eravamo
Rospo, locusta, pipistrello, analfabeta, ubriacone. Nei Paesi dove arrivò “l’Orda” così venivano visti i lavoratori italiani

Da “Il viaggio più lungo - L’Odissea dei migranti italiani” di Gian Antonio Stella, che Rizzoli manda in libreria questa settimana, riportiamo alcune delle voci di un dizionario che gli italiani dovrebbero tenere bene a mente.


ALCOOL
Quello del vino è uno dei tanti «vizi» rinfacciati ai nostri emigranti. Come in tutti gli stereotipi c’era qualcosa di vero. Nell’Italia povera di un tempo il vino era spesso un integratore alimentare. Il consumo di vino pro-capite annuo, oggi intorno ai 50 litri, era nel primo decennio del Novecento di 126. Mandare i figli a scuola dopo aver dato loro una scodella di vino con la polenta vecchia era un’abitudine diffusissima, soprattutto nelle aree più povere dove veniva coltivata la vite. «La Rivista Veneta di scienzemediche» scriveva che in provincia di Venezia,«unadellecittàpiùsifilizzated’Italia», su 12.000 scolari delle elementari «soltanto3000nonbevono,9000bevonoregolarmente vino e la metà ne abusa».

ANALFABETI
Ai nostri emigrati è stato per moltotempo rinfacciato di essere più ignoranti rispetto a quelli di altri Paesi europei. I dati, del resto, non lasciano dubbi. Stando ai censimenti la percentuale di analfabetinelnostroPaese,ancoradel21percento nel 1931, negli anni della Grande Emigrazione era spaventosa: 67,3 per cento nel 1881; 73 per cento nel 1871; 78 per cento al momento dell’Unità d’Italia nel 1861. Uno studio sulle liste passeggeri dei transatlantici di Ira A. Glazier e Robert Kleiner, del resto, dice tutto: su due naviacasoarrivatenegliUsanel1910,gli immigratianalfabetisbarcatidall’italiana «Madonna» erano il 71 per cento, quelli russi scesi dalla «Lithuania» il 49 per cento: 22 punti in meno. Quanto ai lavoratori specializzati, i nostri erano 7 su 100, i russi 40.

BABIS
Rospi. Uno dei nomignoli dati agli italiani in Francia alla fine dell’Ottocento.

BAT
Pipistrello. Soprannome insultante dato ainostriemigrantiincertezonedegliStati Uniti alla fine dell’Ottocento e ripreso dal giornale «Harper’s Weekly» per spiegare come molti americani vedessero gli italiani «mezzi bianchi e mezzi negri» così come i pipistrelli sono mezzi uccelli e
mezzi topi.

CHIANTI
Ubriacone (nomignolo dato ai nostri emigranti in Usa, con un riferimento al vino toscano che per gli americani rappresentava tutti i vini rossi italiani, chiamati «dago red».

FINESTRE
«Gli italiani tengono le finestre spalancate
per tutta la domenica, dal primo mattino fino a sera. Le loro stanze sono affollate per tutto il giorno. Fanno tutto con le finestre aperte, anche vestirsi, come i selvaggi. Siedono intonando da mattina a sera canzoni oscene e alcuni giocano a carte sulle note dei loro strumenti d’ottone. La cara domenica ci viene guastata da questo indicibile e vergognoso comportamento. Abbiamo l’impressione di esserci trasferiti in una regione selvaggia .» (Denuncia di unabitantedelquartiere Petersberg del 1893)

GIOPPINO
Poche cose come la storia dei gioppini ricordano
quanto l’Italia della Grande Emigrazione fosse un Paese molto povero. I gioppini erano le più popolari marionette bergamasche quando la provincia di Bergamo, oggi ricca, era ridotta in condizioni miserabili. Tutti i gioppiniavevano i «tri gos», i tre gozzi, una malattia comunissimatraimontanaripiemontesi,lombardi e veneti, sulla quale i bergamaschi trovarono il coraggio di ironizzare. Era causata dalla cattiva alimentazione e in particolare dall’ipotiroidismo dovuto al bere, senza alcuna integrazione, acqua del tutto priva di iodio. Sarebbe bastato del normale sale marino a sanare la piaga. Ma costava troppo e la gente usava sale da salgemma.

IGIENE «La verità si è che nella maggior parte dei nostri operai non è per nulla sviluppato il sentimento della pulizia e della decenza,chelelorocondizionidivitaall’estero rispecchiano fedelmente le loro condizionidivitainpatria.L’operaiocheviene dalla Basilicata o dal Napoletano, dove abita in piccole, poverissime case simili ad alveari, talvolta scavate sotto terra (...); o dalle campagne venete e lombarde, ove abita in casolari intessuti di fango e vimini; o dalle pendici alpine; (...) l’operaio, dico, che arriva da questi luoghi, ha dei bisogni limitatissimi da soddisfare; egli non sente nessuna necessità dielevarsiunpo’.(...)Domandateunpo’
a questi operai perché vivono così male ed essi vi risponderanno invariabilmente che a casa loro vivevano assai peggio.» (GliitalianiinGermania,rapportodel15 novembre 1914 del regio ispettore dell’Emigrazione Giacomo Pertile.)

JIM ROLLINS
Era un giovane nero dell’Alabama processato nel 1922 per il reato di «miscegenation » (mescolanza di razze) con l’accusa di avere avuto rapporti sessuali con una donna bianca. Condannato in primo grado, Rollins fece ricorso in appello: «Non era bianca, era italiana». Il giudice, come ricorda la studiosa Bénédicte Deschamps nel suo saggio Le racisme anti-italien aux États-Unis, nella raccolta del 2000 curata da Michel Prum Exclure au nom de la race, gli diede ragione. Spiegando nella sentenza che «non si poteva assolutamente dedurre cheellafossebianca,néchefosseleistessa negra o discendente da un negro».

KATZELMACHER
«Fabbricacucchiai» nel senso di stagnaro, artigiano di poco conto ma anche «fabbricagattini» forse perché gli emigrati figliavano come gatti. Nomignolo appiccicato ai nostri emigrati in Austria e Germania.

LOCUSTE
«[Sono] briganti, lazzaroni, fannulloni, corrotti nell’anima e nel corpo. (...) Se il boicottaggio vale a qualcosa, è in questo caso degli italiani che debbasi applicare. Siamo certi che i nostri capitalisti non ricaveranno beneficio alcuno dall’importazione di queste locuste.» («Australian Workman», 24 ottobre 1890.)

NOMI
Nel mondo ci sono 6 Crotone, 5 Pavia, 4 Siena, 5 Como, 20 Palermo, 33 Firenze, 27 Verona e 44 Roma. («Gazzetta del Sud», 21 luglio 2000, citando «Focus»).

RIMPATRIO
«Le nostre leggi sul rimpatrio sono inesorabili e in molti casi disumane. (...) Ho vistocentinaiadipersone(...)costrettea ritornare nei Paesi di provenienza, senza soldi, e a volte senza giacche sulle spalle. Ho visto famiglie separate, che non si erano mai riunite: madri separate dai lorofigli,maritidalleloromogli,enessuno negli Stati Uniti, nemmeno il Presidente in persona, poteva evitarlo.» (Edoardo Corsi, All’ombra della Libertà, 1935).

È come mandare Gasparri a parlare di Einstein

Dal Fatto.

Il mezzanino delle libertà

di Marco Travaglio

Ma davvero qualcuno può pensare che il caso Scajola si chiuda con le dimissioni di Scajola? Ma davvero, come scrive Pigi Battista sul Pompiere della Sera, il caso Scajola è “una vicenda personale i cui contorni restano ancora enigmatici”? Queste piacevolezze sarebbe il caso di lasciarle agli addetti ai favori. Tipo Littorio Feltri, che addirittura si “leva il cappello” dinanzi al “valore del gesto” di Sciaboletta che “non risulta indagato” eppure s’è addirittura dimesso, dunque il cavalier padrone se lo deve riprendere al mercatino dell’usato per “utilizzarlo nel (e per il) partito allo scopo di riorganizzarlo specialmente in periferia” perché “in questo genere di incarico il dimissionato ci sa fare”. O tipo Maurizio Belpietro, che se la prende con i “pm prevenuti” che hanno impedito a Scajola di “spiegare com’erano andate le cose e dimostrare di
non aver nulla di cui vergognarsi”, poi assicura che il pover’uomo è “sconfitto, ma non vinto” (però…) e “sogna di tornare e ricominciare”. Magari da un altro appartamento in saldo. L’impressione è che, accertatisi che la tragedia di quest’uomo ridicolo aveva indotto persino Berlusconi a scaricarlo, gli house organ dichiarati e i finto-terzisti abbiano una gran fretta di archiviare il tutto come una faccenda isolata, persino bizzarra, e di ricominciare come se nulla fosse accaduto. Come se, uscito di scena (per ora) il Rièccolo imperiese, non restasse sospesa una domanda grande come una casa, anzi come un mezzanino da 180 metri quadri vista Colosseo: perché mai il costruttore Anemone ha sborsato 900 mila euro per dare un tetto al ministro delle Attività produttive, già ministro dell’Interno e coordinatore di Forza Italia? Uno slancio di generosità per un povero homeless o qualcos’altro? La cricca gelatinosa e trasversale emersa dalle indagini fa sospettare qualcos’altro. Un qualcos’altro che spiegherebbe un altro capitolo del mega-scandalo: perché mai San Guido Bertolaso andava al Salaria Sport Village convinto di farsi innocenti massaggi contro la cervicale, e il titolare, il solito Anemone, lo affidava a una brasiliana in bikini per curargli una cervicale decisamente più bassa? La cricca ricattava (e ancora ricatta) ministri e sottosegretari? Quanto è lungo il guinzaglio del premier e dei suoi discepoli, a partire dal coordinatore Verdini, indagato per corruzione e riperquisito nella sua banca (perché a questo siamo: il coordinatore del primo partito d’Italia e di governo ha una banca)? Mentre Bertolaso sostiene, restando serio, che non sono gli scandali del suo clan, ma il nuovo film della Guzzanti a guastare l’immagine dell’Italia, manca qualcuno che autorevolmente ponga queste domande. Potrebbe farlo il capo dello Stato, nelle cui mani il governo giura: speriamo che, nel tragitto fra Quarto e Marsala, trovi il tempo per un “monito” all’“autocritica” non ai magistrati che indagano, ma ai politici che rubano. Potrebbe farlo il presidente del Senato, se non fosse Schifani. Potrebbe farlo Fini, ma verrebbe subito tacciato di tradimento e disfattismo. Dovrebbe farlo il maggiore partito di opposizione, detto anche Pd, che ancora balbetta di “palude” e di “strappi”, come se temesse una crisi che lo coglierebbe, tanto per cambiare, impreparato. Certo è stata una grande idea mandare a Ballarò, a parlare di casa Scajola, Massimo D’Alema che nel ‘96 dovette lasciare l’appartamento Inpdap da 150 metri quadri a Trastevere dopo che il Giornale ne aveva svelato l’affitto decisamente bassino: come mandare Sircana a dibattere su Marrazzo o Gasparri a parlare di Einstein. Che Sallusti avrebbe azzardato un parallelo impossibile tra casa D’Alema e casa Scajola (D’Alema pagava poco, ma almeno pagava di tasca sua) era scontato. E mandarlo “a farsi fottere” è stato un altro colpo di genio. Un’opposizione adeguata alla gravità del momento dovrebbe dotarsi di argomenti un po’ più efficaci. E magari di leader in grado di rispondere: “Noi siamo diversi da voi”. Il “siamo meno peggio” non è proprio il Massimo.

mercoledì 5 maggio 2010

Così per scherzo

L'editoriale di Marco sul Fatto. Supera se stesso :-)

Proprietà percepita

di Marco Travaglio

Nell’ora della prova, è cosa buona e giusta che gli italiani di buona volontà si stringano attorno all’ormai ex ministro Scajola, venuto prematuramente a mancare all’affetto dei suoi cari. La tegola che l’ha colpito non la si augura al peggior nemico: un impresario edile che lavora col suo governo gli ha pagato la casa a sua insaputa. Così per scherzo, o per sfizio, o per dispetto. Anemone aveva 900 mila euro che gli crescevano e, non sapendo che farsene, ha pensato di regalargli un appartamento di 180 metri quadri vista Colosseo (il famoso “mezzanino”) senza dirgli niente. A tradimento. Ma cribbio, son cose da farsi? Bell’amico. Per sei anni Scajola ha abitato in una casa convinto di averla comprata lui. Un caso di proprietà percepita. Lui, Sciaboletta, andava in giro tutto tronfio e compiaciuto del suo fiuto per gli affari. Appena incontrava qualcuno, gonfiava il petto: “Ma lo sai che ho comprato 180 metri quadri sul Colosseo per 610 mila euro? Ganzo, eh?”. Poi ha letto i giornali e ha scoperto che qualcuno aveva aggiunto 900 mila euro per fare buon peso. Come Berlusconi: quando gli aviotrasportavano stock di ragazze nelle sue residenze, s’illudeva di averle conquistate tutte col suo charme. Figurarsi la delusione quando ha scoperto che erano escort e, dietro la porta, c’era sempre un Giampi Tarantini che le pagava per il disturbo 1000-2000 euro, inclusa l’indennità rischio. Dall’utilizzatore finale di mignotte all’utilizzatore finale di case. “Se scopro chi è stato – si è detto Scajola – gli faccio un culo così!”. Poi ha letto che era Anemone, quello dei lavoretti a casa Balducci, dei massaggi a Bertolaso, insomma dei Grandi
Eventi. All’improvviso la vita gli è apparsa sotto un’altra luce. Ha preso ad aggirarsi per casa sua (si fa per dire) scrutando con occhio sospettoso qualunque oggetto lo circondasse: quadri, elettrodomestici, mobili e soprammobili, temendo li avesse comprati qualcun altro alle sue spalle. Interrogava divani e poltrone: “Siete miei o di Anemone? Parlate, perdio!”. Torchiava la lavatrice: “Confessa, puttana, chi ti ha pagata?”. Non poteva più fidarsi nemmeno della play station e la bistrattava a brutto muso, come Michelangelo con la Pietà: “Perché non parli? Sei mia o di chi sei?”. Il momento più drammatico è stato il faccia a faccia con la cassaforte, dove il ministro tiene un po’ di argent de poche: “Di chi saranno questi soldi? Vuoi vedere che qualche ladro mi ci ha nascosto la refurtiva per incastrarmi?”. Gli è pure tornata alla mente la volta che trovò la serratura forzata e temette una rapina, ma non mancava nulla. Per forza. I ladri, quando passano da lui, non asportano: importano. Lasciano sempre lì qualcosa. Per giorni e giorni, in totale solitudine (nemmeno gli avvocati e i portaborse potevano credere alla storia della proprietà percepita), ha riflettuto sul da farsi e sul da dirsi, preparando l’autodifesa. Ma gli mancavano le parole. Infatti il primo giorno ha detto: “Non posso parlare, c’è il segreto istruttorio”. Come se un politico accusato di rubare potesse difendersi dicendo: “È un segreto”. Il secondo giorno ha tuonato: “Non mi lascio intimidire” (da 80 assegni, poi…). Ma il meglio l’ha dato ieri nella conferenza stampa senza domande: “Un ministro non può sospettare di abitare un’abitazione pagata, in parte, da altri”. Aveva anche pensato di abitare l’abitazione per la sola parte pagata da lui: un terzo di cucina, un terzo di soggiorno, un terzo di bagno, ma il problema era la doccia. Non restavano che le dimissioni. Fosse vivo Feydeau, acquisterebbe i diritti sulla storia per cavarne un vaudeville travolgente: “Casa Scajola”. Trama: la moglie del ministro rincasa e sorprende il marito a letto con un’altra; lui, anziché sfoderare il classico “cara, non è come tu pensi”, cazzia la tipa sbalordito e sdegnato: “Signorina, che ci fa lei nel mio letto? Ma come si permette? Non si vergogna di infilarsi fra le mie lenzuola a mia insaputa? Un ministro non può sospettare di abitare un letto popolato, in parte, da altre”. E se ne va brontolando.

Il popolo laziale e L'Aquila perduta


Dal fatto.

“DRA QUILA”

SABINA GUZZANTI: LA MIA AQUILA

Il docu sul sisma che andrà a Cannes: “Per scoprire cos’è diventata la
Protezione civile c’è voluta una buona dose di intuito e talento investigativo”

di Sabina Guzzanti

Cari lettori del Fatto – come si dice target del mio stesso target – scrivo qui per annunciarvi personalmente che Draquila è pronto e vi attende nelle sale. Dura un’ora e mezza ed è la sintesi di un anno di lavoro iniziato a maggio dell’anno scorso, quando mi sono arrivate all’orecchio strane voci su quello che stava succedendo nella zona terremotata. Ho fatto un po’ di ricerche, ho aspettato che passasse il G8 e sono partita. Dopo aver parlato con tanti cittadini mi è sembrato che L’Aquila fosse una porzione di realtà ideale per raccontare l’Italia di oggi. C’erano tutti gli elementi: la speculazione più cinica, l’assenza della politica, la propaganda sempre più spudorata, l’autoritarismo, la corruzione e l’alito della criminalità organizzata. Ho mollato quello che stavo facendo e ho cominciato a girare con una piccola troupe fatta di cinque persone, me compresa. Siamo stati a L’Aquila tantissime
volte da luglio a marzo e abbiamo girato più di 700 ore di materiale. Il film è la sintesi dei racconti e dei ragionamenti che ho ascoltato e tutti gli incontri fatti sono serviti al progetto anche se non li ho montati. Quindi ringrazio ancora una volta tutti quelli che ci hanno concesso il loro tempo e le loro documentazioni. Mentre scrivo apprendo che Bertolaso ha dichiarato che portiamo a Cannes un’immagine sbagliata dell’Italia e che il mio è solo un punto di vista. Un punto di vista comunque abbastanza condiviso visto che quando ho chiesto agli utenti del blog di aiutarmi a trovare il titolo del film sono arrivate centinaia di proposte tutte dallo stesso punto di vista: Dove osano gli sciacalli, Lo specchio del reame, Anteprima dell’inferno, The marchigian candidate, I cacciatori di aquilani, Sciacalli in attesa di giudizio, Sciacallo pubblico, Qualcuno rubò sul nido de L’Aquila, Iene ridens a L’Aquila, Aquilopoli, Transilviania, Delinquo ergo sum, Le macerie della democrazia, In campeggio con Silvio, Sciacalli S.p.a., Protezione incivile, Sesso senza protezione, Feccia in libertà, Il conato della terra, Sanguisuga party, Grosso guaio a new town, Miraculo. E naturalmente Draquila il titolo che poi abbiamo scelto fra quelli proposti. Per i resto che dire dell’inchiesta? Per scoprire cos’è diventata la Protezione civile c’è voluta una buona dose di intuito e talento investigativo. In pratica ho chiesto alla prima persona che ho incontrato e me lo ha spiegato. Ho chiesto conferme a destra e a manca e ne ho trovate a destra e a manca. Ho chiesto a quelli della Protezione civile e mi hanno risposto in modo da far cadere ogni sospetto, che me ne avrebbero parlato volentieri ma che se lo avessero fatto sarebbero stati licenziati in tronco o spediti in qualche magazzino fuori dal raccordo anulare a osservare il soffitto fino alla fine dei loro giorni. Immagino che il motivo per cui nessuno parlava della faccenda, nemmeno a sinistra dove un paio di senatori solitari si dibattevano nel vuoto, fosse la presenza nel Pd di Rutelli e il fatto che il partito fosse commissariato da Ruini. La difficoltà più importante che ho fronteggiato è stata riuscire a credere che quello che vedevo stesse succedendo veramente; credere che ci sia in giro tanta gente così spietata e tanta gente così semplice , che così tanti siano disposti a vendere quello che non si deve e che lo vendano per così poco; tanta gente così fanatica, gente così eroica gente così acrobatica. Gli italiani sono cambiati, sono cambiati tanto e questo nel film si vede. Se dovessi descrivere come siamo cambiati con le parole non saprei da dove cominciare. Allora scrivendo per voi del Fatto non trovando una conclusione sono scesa al bar di sotto dove era accesa la televisione. Sgrano gli occhi per lo sgomento vedo i politici, uno ad uno, che sullo sfondo del Parlamento fanno un sermone sul pallone. Ho chiesto agli avventori se avevo un’allucinazione, se era Halloween o uno scherzo o che diavolo fosse successo. Mi hanno risposto coi volti scuri e il mio sorriso allora si è spento, mi sono messa ad ascoltare il signore che per primo ha iniziato a parlare: dice è successa una cosa mai vista, mai a memoria d’uomo, una cosa sconvolgente per quanto è meschina, per quanto è fetente. Fin da quando il mondo è mondo sempre si è combattuto: gli zenoti contro i romani, i semiti con gli indorai, i franchi contro i provenzali, i longobardi e i bizantini, i comuni italiani contro i comuni italiani, la Spagna cattolica contro figli dell’islam, gli indiani della prateria contro gli indiani dei grandi laghi, i francesi contro gli inglesi, i bretoni contro i sassoni, riforma e controriforma, Stanlio & Ollio, bionde contro more, gatto e topo, indù e musulmani, Annibale e Fabio Massimo, Muto e sonoro, Apollo e Dioniso, Napoleone e gli aristocratici. Figurativi ed astrattisti e potrei andare avanti e lo sapete. Ma un popolo contro se stesso – continuava l’uomo del bar – questo non è mai avvenuto. Mai era accaduta una cosa del genere. Un fatto epocale, apocalittico senza precedenti: I tifosi laziali facevano la ola quando l’Inter segnava contro loro medesimi. Senza casa né amore né poesia ahimè non si è più niente. Nessun sunnita applaude se uno sciita fa un discorso anche valido. E continuavano: non si è mai visto! Gli Shogun contro i cinesi; i Mongoli contro Kiev e Mosca, I Gesuiti contro i Francescani, i Suicidi e gli omicidi, non s’è mai visto. Di battaglie, di guerre se ne sono viste tante ma non si è mai visto qualcuno andare apertamente contro se stesso. E così sia pure con una grossa semplificazione ho trovato le parole per la conclusione. Come spiegare in poche parole questo declino totale? È come se un intero popolo di colpo fosse diventato laziale.

martedì 4 maggio 2010

Il PD non è una Fenice, ci eravamo illusi...

Dal Fatto.

Il braccio Violante della legge

di Marco Travaglio

Non fai in tempo a elogiare un politico che quello si dà subito da fare per smentirti. Ci era piaciuta la reazione cazzuta di Bersani, incalzato ad Annozero. Soprattutto quando aveva detto che “la nostra Costituzione è la migliore del mondo” e, salvo qualche aggiornamento, il Pd intende difenderla con le unghie e coi denti così com’è. Si sperava che il segretario Pd avvertisse subito della svolta i due responsabili del partito per le riforme – Andrea Orlando (Giustizia) e Luciano Violante (istituzioni) – affinché riponessero dialoghi e tavoli finalizzati a “riforme condivise” e si preparassero alla pugna. Invece apprendiamo da Repubblica che Orlando insiste sulla linea tracciata nel memorabile articolo pubblicato sul Foglio di Giuliano Ferrara (forse nella speranza che non lo leggesse nessuno) dal titolo “Caro Cav, il Pd ti offre giustizia”. Lì, accanto a idee condivisibili come la soppressione dei piccoli tribunali, si leggono autentiche perle di berlusconismo in salsa piddina: almeno tre sintomi della sindrome di Stoccolma, anzi di Arcore, che da anni porta il centrosinistra a subire l’agenda berlusconiana che non punta a riformare la Giustizia per farla funzionare, ma a riformare i magistrati per limitarne l’indipendenza.
Primo: “Ridefinire l’obbligatorietà dell’azione penale… individuando le priorità” dei reati da perseguire e da ignorare. Secondo: “Riforma del sistema elettorale del Csm che diluisca il peso delle correnti della magistratura associata”, accompagnata da “una sezione disciplinare distinta” per i magistrati, che finirebbero nelle mani di un organo esterno. Terzo: “Rafforzare la distinzione dei ruoli tra magistrati dell’accusa e giudici” e “i limiti temporali di permanenza nei diversi uffici”, e addirittura “limitare l’elettorato passivo dei magistrati, in particolare di quelli che hanno svolto attività requirenti” (cioè: non si rendono ineleggibili i delinquenti, ma i pm). Nemmeno una parola sull’abrogazione delle leggi vergogna (ex Cirielli sulla prescrizione breve, depenalizzazione sostanziale del falso in bilancio e dell’abuso d’ufficio) o sulla necessità di ratificare la Convenzione europea anti-corruzione firmata 11 anni fa dall’Italia e mai tradotta in legge, che punisce il “traffico d’influenze” (il pappa e ciccia gelatinoso, con scambi di soldi e favori, come nel caso della Protezione civile e di casa Scajola). Oltre a richiedere modifiche costituzionali, e dunque uno snaturamento di quella che Bersani definisce giustamente la Costituzione più bella del mondo, le proposte di Orlando ricalcano quelle avanzate a suo tempo dall’anima nera del Pd in materia: Violante. E offrono una sponda formidabile alle porcherie targate Al Fano e Al Nano, proprio mentre i finiani se ne smarcano. Perdipiù sono follia pura: se si ritiene che i magistrati non possano o non debbano perseguire tutti i reati previsti dal Codice penale, tanto vale depenalizzare quelli in esubero, anziché metterli in coda alle “priorità”. Che senso ha mantenerli come delitti e dire ai cittadini “questo è vietato, ma se lo fai ti perdoniamo”? Oltretutto le “priorità”, essendo una scelta politica, le dovrebbe indicare il governo o il Parlamento, così la politica darebbe ordini alle procure in barba alla separazione dei poteri e all’indipendenza della magistratura sancite dalla Costituzione più bella del mondo. Altrettanto pericoloso il via libera a toccare il Csm: siccome il Pd è minoranza, aprire quel vaso di Pandora consente alla maggioranza di riempirlo come gli pare, aumentandovi i membri politici a scapito dei togati (come peraltro proposto a suo tempo da quel genio di Violante). A questo punto, delle due l’una: o il piccolo Orlando non ha visto Bersani ad Annozero; o l’ha visto, ma non l’ha capito. Bersani dovrebbe fargli un riassunto, magari con l’ausilio di qualche disegnino. In caso contrario, dovremo dedurne che Bersani pensa di riformare con Berlusconi la miglior Costituzione del mondo, per trasformarla nella peggiore.

domenica 2 maggio 2010

La rinascita del PD?

Dal Fatto.

Elogio di Bersani

di Marco Travaglio

Giovedì, ad Annozero, sono accadute cose che sarebbero normali in un Paese normale, ma in Italia rasentano lo stupefacente. Pier Luigi Bersani – diversamente dal suo mèntore baffuto e dal cavalier Berlusconi – ha accettato di misurarsi senza rete di protezione con cinque giornalisti di vari orientamenti che gli rivolgevano domande e gli muovevano contestazioni anche aspre. Ha fatto buon viso, ha sorriso, s’è infervorato, s’è incazzato, ha risposto per le rime, a tratti è parso addirittura a un passo dal commuoversi. Insomma, a contatto con alcuni esseri viventi, ha ripreso vita proprio quando lo stavamo perdendo. Lo stato pre-comatoso di partenza non è colpa sua: provate voi a frequentare tutti i santi giorni luoghi sepolcrali come quelli del Pd, antri spettrali popolati di salme e anime morte, ossari e fossili, in cui si aggirano raminghi i D’Alema, i Veltroni, i Fioroni, i Fassino, i Marini, i Follini, i Violante, i Letta (junior), facendosi largo fra residui del cilicio della Binetti e della cicoria di Rutelli e altri giurassici relitti del passato che non passa. Scene e ambienti che intristirebbero un battaglione di clown del Circo di Mosca. Ma poi le prime domande hanno sortito l’effetto del defibrillatore: il paziente s’è prontamente rianimato come nella serie E.R. e, dopo un istante di comprensibile disorientamento (“Dove sono?”), ha pronunciato alcune frasi tratte da un passato ormai lontano ma ancora impresse nei meandri del subconscio: “Opposizione”, “Costituzione”, addirittura “conflitto d’interessi”. Paolo Mieli ne ha concluso che in
quel momento è nato un leader. Può darsi, lo sperano in molti. Intanto i suoi elettori non possono che aver apprezzato alcune frasi finalmente complete (prima le lasciava quasi tutte a metà), dunque chiare, comprensibili, non politichesi. Soprattutto una: “La nostra Costituzione è la più bella del mondo: al massimo va un po’ aggiornata, ma guai a chi la tocca. Per difenderla siamo pronti a chiamare a raccolta tutti quelli che ci stanno, a partire da Fini”. Una svolta non da poco, visto che fino al giorno prima il responsabile Pd per le riforme, Luciano Violante, dichiarava restando serio: “Ho il dovere di credere al presidente del Consiglio e di dialogare sulle riforme”. Frase che ha indotto Ficarra e Picone, a Striscia la notizia, a domandare se per caso non sia cambiato il presidente del Consiglio, visto che il Pd gli crede. E a ipotizzare che, in vista dell’incontro per le riforme, Berlusconi abbia invitato Violante a presentarsi a Palazzo Grazioli col trucco leggero e il tubino nero d’ordinanza. Se le parole di Bersani hanno un senso – e si spera che l’abbiano, è il segretario del Pd – la “bozza Violante” per rafforzare (ancora?) i poteri del premier, porre fine al bicameralismo e saltare nel buio del federalismo va in soffitta, visto che prevede ben di più e di peggio che “qualche aggiornamento” alla “Costituzione più bella del mondo”. Così come le tragicomiche avances per l’ennesima riforma anti-magistratura affidate dal responsabile Giustizia Andrea Orlando al Foglio di Ferrara (forse sperando che non le leggesse nessuno). Vedremo se, alle parole di Bersani, seguiranno i fatti (intanto ci accontentiamo delle parole: prima non c’erano neppure quelle): è cioè la fine del “dialogo” e dei “tavoli” per le “riforme” e l’inizio di un’opposizione dura, proporzionata alla gravità della minaccia. Chissà che, trovando una sponda energica nel Pd, il capo dello Stato non racimoli un po’ di coraggio per rispedire al mittente le leggi vergogna della banda del buco prossime venture. A proposito: ci scusiamo con i lettori per la precipitosità con cui ieri abbiamo elogiato Napolitano per la mancata firma al decreto Bondi sugli enti lirici. Dopo appena 24 ore di temeraria astinenza, la penna più veloce del West ha firmato anche quello. Ma non è colpa sua. E’ come il Dottor Stranamore: quando gli parte la mano, non c’è nulla da fare. E’ più forte di lui.