venerdì 19 novembre 2010

La mafia al nord

Da Repubblica.it il COMMENTO di Ezio Mauro di oggi riportato solo in parte qui sotto, ma che potete leggere per intero QUI.


Il Caso Saviano


Ma Roberto Saviano ha davvero detto in televisione che il Nord è mafioso? Ovviamente no. L'autore di "Gomorra" conosce troppo bene il fenomeno delle organizzazioni criminali, della loro diversificazione economica e delle loro diramazioni per cedere a simili semplificazioni. Costruire questa sciocchezza, e imputargliela, è una chiarissima operazione ideologica, che si basa sul falso e dunque appartiene al solito marchio della fabbrica del fango, creato e custodito da anni nei quartieri bassi dell'impero berlusconiano.

Ci si potrebbe fermare qui. Ma in realtà nell'affanno di questa denuncia ci sono tre aspetti più generali, su cui vale la pena di riflettere, soprattutto oggi che ci si può complimentare col ministro degli Interni per la cattura del numero uno dei Casalesi, Antonio Iovine.

Il primo aspetto è istituzionale. Negare che la mafia sia ormai non solo infiltrata, ma insediata nel Nord d'Italia è un'ipocrisia, e quando l'ipocrisia è del governo diventa una pericolosa sottovalutazione della realtà, che non aiuta il Paese ad essere consapevole del fenomeno.

[...]

Il secondo aspetto di questa vicenda è culturale. La furia contro Saviano è furia contro un uomo solo. Saviano non ha dietro di sé un mondo strutturato, un partito, un apparato, un potentato economico, un'azienda: anzi, l'azienda editoriale per cui pubblica lo ha scomunicato attraverso le parole del suo azionista, e alla Rai è soltanto un ospite di passaggio, mal sopportato anche se di successo. Certo, ha lettori a centinaia di migliaia, nelle librerie e a "Repubblica", ma è un uomo libero nella sua vita minima, ridotta e sorvegliata. E soprattutto solo. Attaccarlo dalle sedi del potere, e dai suoi sottoscala, è un'operazione sproporzionata, una dismisura tipica del potere oggi dominante.

[...]

Infine l'ultimo aspetto (per il momento) di questa storia: che è politico, finalmente. Attaccando Saviano per il suo monologo sulle mafie, il potere e le sue guardie del corpo cercano spaventati di colpire qualcos'altro che sentono ma non vedono, come se si muovessero al buio. Diamo un nome a questa cosa. È il peso politico, tutto politico del discorso di Saviano. Che è tale proprio perché non fa politica, e non vuole farla. Perché è un discorso sofisticato nella sua esperienza sul crimine, e insieme ingenuo nel senso originario del termine, un discorso che non bada alle conseguenze e agli opportunismi, non fa calcoli. Dunque un discorso disarmato da interessi collaterali, perché testardamente ha interesse solo per le parole che pronuncia. Che perciò vengono percepite come autentiche da milioni di persone. E questo fa confusamente paura al potere dominante, afasico nei suoi proclami, sempre più costretto a lavorare sottobanco, proprio perché le sue parole non funzionano più, o suonano false.

Fa paura l'idea che quei nove milioni di spettatori per Saviano non si spieghino soltanto con ragioni televisive, ma col bisogno di un linguaggio appunto nuovo, di significati diversi, di codici differenti. Un bisogno di cambiare programma non solo in tivù, ma nel Paese.

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