giovedì 18 marzo 2010

Le due facce della medaglia e il muro in mezzo


Un giovane colono ultraortodosso lancia del vino contro una donna palestinese a Hebron
(FOTO DI RINA CASTELNUOVO, THE NEW YORK TIMES/CONTRASTO)


Dal Fatto di oggi.


LA GUERRA IN UN GESTO

Il giovane ebreo che umilia la donna palestinese: una convivenza
che resta impossibile

di Roberto Faenza

Nella fotografia il giovane colono ebreo, che probabilmente appartiene a qualche scuola ortodossa, compie un’azione esecrabile. Un gesto vergognoso ai danni di una povera donna palestinese, certamente anziana. Ai tempi della lavorazione del film da me diretto ispirato al romanzo “L’amante” dello scrittore israeliano Abraham Yehoshua, ho vissuto circa un anno facendo la spola tra Israele e la Palestina. Quando ero a Gerusalemme mi sentivo dalla parte degli ebrei e quando ero in Palestina mi sentivo invece dalla loro. A tutti i costi ho voluto formare una troupe mista e mi faceva una certa impressione vedere lavorare al mio fianco ragazzi e ragazze con la pistola in tasca o nello zaino. Ma questa è la condizione di chi vive in quella terra martoriata. Quando sei a Gerusalemme capisci che la gente esce da casa la mattina ma non sa mai se farà ritorno la sera, paventando ogni momento un possibile attacco dei kamikaze. Se invece vivi a Ramallah alzi la testa e scruti il cielo per vedere se non siano in atto raid punitivi. Che razza di vita è mai quella che attanaglia le persone con tanta precarietà e angoscia? Non si può capire il senso delle reiterate intifade e delle offensive militari se non si entra nella testa dei contendenti. Il giovane che lancia il vino contro la donna araba poco o nulla sa della Shoah e dei campi di sterminio in cui sono morti i suoi nonni o i familiari dei suoi genitori. Sa solo che il popolo arabo è un nemico che vive a pochi passi da lui, non importa se composto da giovani o donne, sotto le cui gonne potrebbero nascondersi armi o chissà quali esplosivi. Questo è quello che pensa: i palestinesi sono pronti a lanciare i missili contro la sua casa e il suo villaggio, sono gente capace di allearsi con quel Mahmoud Ahmadinejad, che un giorno sì e il giorno dopo anche spara a zero contro gli ebrei, invocando la guerra santa e la cancellazione dello stato di Israele. Quel ragazzo con due treccine laterali che si chiamano peot è sicuramente un giovane studioso della Bibbia che osserva regole rigide: “Non vi taglierete in tondo i capelli ai lati del capo e non ti raderai i lati della barba”. Per lui, la sua terra è santa e non conosce altro diritto all’infuori delle Sacre Scritture. Per quel ragazzo i diritti dei palestinesi non esistono perché riconosce solo i diritti sanciti dal suo Dio, e non importa se è lo stesso Dio in cui credono gli arabi. Da Tel Aviv ti sposti verso Gaza o a Ramallah e subito diventi uno di loro. Come potrebbe essere altrimenti, quando vedi interi villaggi senza acqua, senza strade, senza piante, senza energia elettrica, con il cibo razionato e le comunicazioni interrotte? Oppure vedi la muraglia che separa i due popoli e ti rendi conto che non puoi andare a lavorare da nessuna parte se i soldati israeliani non ti fanno passare. Non puoi neppure sposarti in pace e fare una grande festa alla quale invitare i tuoi parenti che vivono al di là della muraglia, perché non otterrebbero il permesso di venire a festeggiarti. I nonni di Hamed, un amico palestinese che si è laureato in Architettura a Milano, vivevano a Jaffa, la parte vecchia di Tel Aviv, sorta oltre 5.000 anni fa. Hamed vorrebbe tornare a vivere nella loro casa, da cui i nonni sono stati cacciati quando Jaffa è entrata a far parte dello Stato di Israele. Ma una legge, che gli arabi giustamente ritengono iniqua, glielo impedisce. Mentre la legge del ritorno vale invece per gli ebrei: infatti qualsiasi ebreo, non importa dove sia nato, può diventare israeliano. Hamed può soltanto, di quando in quando, ottenere un permesso per venire a Jaffa e guardare da lontano la casa dei nonni, ora abitata da ebrei, i quali a loro volta nulla sanno dei diritti di Hamed o se lo sanno si sentono protetti da una legge per loro sacrosanta. Facile parlare a favore degli uni o degli altri quando si vive altrove e questo tipo di problemi li affrontiamo soltanto sui giornali o sui libri o vedendo la televisione. Ma quando sei lì, devi decidere con chi stai: o con me o contro di me. Hanno ragione Yehoshua, Grossman, Oz e tanti altri bravissimi scrittori molto amati in Italia, e assai meno in Palestina, quando pensano che il muro di divisione sia una cosa giusta. Ma la stessa ragione l’hanno i meno noti (da noi) scrittori palestinesi, da Al-Mutawakel Taha a Sahar Khalifa a Hanan Awwad, quando giudicano una vergogna e razzista quella muraglia che per proteggere gli uni umilia gli altri. Con due mondi così contrapposti sarà mai possibile la pace? Forse ci vorrebbe una forza di pace contrapposta tra i due confini, capace di garantire la sicurezza di entrambi. E di sicuro ci vorrebbe un nuovo Piano Marshall per dare un futuro all’economia palestinese, oggi a pezzi. Certo quando nel finale del mio film ho capovolto quello scritto da Yehoshua e ho fatto spingere l’auto rimasta in panne dal giovane arabo assieme al suo datore di lavoro ebreo, uno a fianco all’altro, ho immaginato l’unica pace a mio avviso possibile anche se idealista: tirare la stessa carretta per vivere insieme sulla stessa terra.

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