giovedì 18 febbraio 2010

Le scelte di Di Pietro

Da Micromega un articolo sulla decisione di Di Pietro di andare verso il PD.

Il prevedibile abbraccio fra Di Pietro e De Luca

Lungi dall’essere un fulmine a ciel sereno, la “svolta realista” dell’Italia dei Valor affonda le sue radici nella strategia “frontista” da sempre perseguita dal partito dell’ex pm.

di Emilio Carnevali

La standing ovation tributata dal congresso dell’Idv al candidato alla Regione Campania Vincenzo De Luca si colloca all’interno di una più generale “svolta strategica” del partito: passare dalla pura opposizione testimoniale alla costruzione di un’alternativa di governo; dall’idealismo della denuncia intransigente al pragmatismo della realpolitik. Così almeno Antonio Di Pietro l’ha presentata ai suoi delegati congressuali, i quali hanno dimostrato con estrema chiarezza di condividere la rotta delineata dal presidente. Molto meno persuasi sono stati invece diversi commentatori esterni nient’affatto pregiudizialmente ostili al movimento dipietrista (da Travaglio a Grillo, fino allo stesso direttore di MicroMega). Qualcuno ha parlato addirittura di un “suicidio politico”.
Tuttavia può forse essere utile un supplemento di analisi che, prescindendo dal giudizio di valore sulle scelte compiute da Di Pietro, cerchi di spiegarne le ragioni oggettive.

1. Da diversi mesi i vari istituiti di sondaggi erano concordi nel segnalare un arretramento dell’Idv dopo il boom registrato alle elezioni europee dello scorso giugno, e questo proprio in un periodo in cui la curva della mobilitazione antiberlusconiana era ai massimi dall’inizio della legislatura, con la poderosa manifestazione del No B Day che aveva visto nell’Idv il suo naturale percettore di consenso (al là dello sbandierato antipartitismo degli organizzatori).
L’impressione che dava l’Idv era quella di aver “tirato su” tutto il possibile da un bacino elettorale estremamente vasto in alcuni segmenti di società – soprattutto considerando parametri quali l’età (bassa), il titolo di studio (elevato), il contesto residenziale (grandi città) – ma alla fine dei conti non troppo più esteso dell’attuale area di consenso già conquistata dal partito. E soprattutto molto più ristretto di quanto le ambizioni di Antonio Di Pietro possano permettere: quello che ha in testa l’ex pm è un partito post-ideologico a “vocazione coalizionale” (un partito puzzle), in questo non troppo diverso dal partito a “vocazione maggioritaria” sognato da Walter Veltroni. Ma qui passiamo al secondo punto.

2. Nonostante nell’ultimo periodo, dopo la scomparsa dal parlamento della sinistra radicale, l’Idv ne abbia occupato lo spazio politico (assorbendone istanze, parole d’ordine e… voti), la strategia di Di Pietro non può essere letta con le medesime categorie che venivano applicate al panorama politico pre-2008. Di Pietro non vuole costruire una forza di “medio calibro” (attorno all’8%-10%) collocata stabilmente “a sinistra” del Pd e destinata a riprodurre la vecchia dialettica interna all’Unione fra moderati e sinistra radicale. La stessa scelta del gruppo liberale come inquadramento europeo del suo partito – in virtù del quale Di Pietro alle ultime elezioni tedesche ha esultato per la vittoria del suo “omologo” Guido Westerwelle (attualmente “ala destra” nel governo di coalizione guidato dalla cristiano-democratica Angela Merkel) – dimostra come all’ex pm l’angolo in basso a sinistra sta molto stretto. L’Idv vuole essere un partito che parla “a tutto campo” all’elettorato di centrosinistra. E per fare questo è disposto a tenere insieme componenti molto diverse, rappresentate icasticamente dall’avvicendarsi sul palco del congresso di Roma del responsabile lavoro Maurizio Zipponi e del responsabile economia Sandro Trento. Due persone che, anche fisicamente, non potrebbero essere più diverse. Baffuto sindacalista ex-Fiom il primo, col suo accento bresciano e la sua retorica ruvida da “assemblea in sala mensa”, ha messo in guardia la platea dal pericolo di colonizzazione industriale che il nostro sistema produttivo sta subendo in questo periodo di crisi; compassato ex direttore del Centro Studi della Confindustria il secondo, impeccabile nel suo completo grigio e cravatta blu, ha sciorinato tutto l’armamentario della lettura del berlusconismo come “modernizzazione liberale tradita”: contro una destra che non ha “cultura del mercato e della concorrenza” e contro una sinistra prigioniera dell’inadeguatezza delle sue ricette stataliste (sulla necessità di attrarre capitali esteri anche negli asset strategici lo scontro con Zipponi è stato esplicito).

3. Il vero fattore identitario dell’Idv è l’antiberlusconismo e questo ne fa un partito naturalmente bipolarista e tendenzialmente bipartitista. Se il berlusconismo è considerato il “fascismo del terzo millennio”, è ovvio che qualsiasi alleanza può essere giustificata alla luce di una strategia “frontista”. La gran parte dell’elettorato “dipietrista-antibelusconiano” storce il naso su certe candidature, ma al dunque non voterebbe una lista minoritaria che ostacola la vittoria del centrosinistra in nome di pur nobili “questioni di principio”. Nelle circa quattro ore dello spettacolo teatrale che qualche settimana fa Marco Travaglio ha portato a Roma, l’applauso più lungo e fragoroso della platea è stato riservato alla battuta salace su Fausto Bertinotti e le sue responsabilità nella caduta del primo governo Prodi. È un particolare di colore, ma assai indicativo per leggere umori, inclinazioni, e dunque “vincoli d’azione” cui è sottoposto qualsiasi soggetto che si candidi a dare “traduzione politica” a questi umori.

4. L’abbraccio fra De Luca e Di Pietro non rappresenta affatto una rottura netta rispetto alla linea di intransigenza tenuta fino ad ora dall’ex pm. Come testimonia l’inchiesta pubblicata da Micromega (5/2009) Di Pietro ha sempre dimostrato una certa disinvoltura (qualcuno ha parlato addirittura di “spregiudicatezza”) nella selezione della propria classe dirigente e nella scelta dei propri partner politici. Le ragioni dell’etica e della trasparenza sono sempre venute a patti, fin dal giorno della fondazione del partito, con quelle del consenso e dell’alleanza con i gruppi che contano sul territorio. La realpolitik – giusta o sbagliata che sia (brevissima digressione: chi scrive non è per nulla insensibile alle ragioni del “realismo politico”) – Antonio Di Pietro l’ha sposata il giorno stesso in cui ha fatto il proprio ingresso in politica.

5. Luigi De Magistris non poteva che declinare l’invito a candidarsi contro De Luca alla presidenza della Regione Campania, in primo luogo per tener fede al mandato ricevuto da una valanga di voti (alle Europee ha battuto lo stesso Di Pietro in quattro circoscrizioni su cinque). A uno che ha fatto della “serietà” e del “rispetto per le istituzioni” le proprie bandiere, difficilmente sarebbe stato perdonata un’iniziativa avventurosa e “iperpolitica” come quella di sfidare De Luca in Campania. Iniziativa destinata a sicura sconfitta per il governo della Regione, ma eventualmente funzionale alla costruzione di un progetto politico di alternativa per portare avanti il quale l’ex pm di Why Not non ha attualmente né la forza all’interno dell’Idv né gli interlocutori esterni in grado di fargli da sponda.

In conclusione, se con la scelta di appoggiare Vincenzo De Luca Di Pietro abbia davvero decretato l’inizio della fine del suo ciclo politico sarà il tempo a dirlo (anche se la cosa sembra alquanto improbabile). Di certo non è stata una mossa improvvisa e imprevedibile.

(15 febbraio 2010)

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